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La Lega Nord presenta oggi in Consiglio regionale una mozione dal titolo “educazione sessuale e contrasto alla diffusione della teoria gender nelle scuole lombarde”. La Casa delle donne di Milano è fermamente contraria. Riproponiamo un pezzo di Barbara Mapelli sul tema, discusso a maggio alla Casa in occasione della presentazione di un numero di “Leggendaria”.

 

Si parla ancora del progetto Polite (pari opportunità nei libri di testo) nella monografia di Leggendaria n.110 dedicata alla scuola e all’attacco alla cosiddetta ‘ideologia del gender’, scatenato da un fronte composito ma organizzato di associazioni cattoliche, sostenute  dalla Conferenza Episcopale e da affermazioni sorprendenti e sconcertanti dello stesso Papa Francesco. Si è parlato ancora di Polite anche nella serata del 19 maggio dedicata alla presentazione di questo numero della rivista alla Casa delle donne di Milano.

E a mia volta inzio questo resoconto dell’incontro proprio ricordando Polite perché si tratta di un progetto nato alla fine degli anni Novanta – nascita nobile e autorevole siglata da altrettanto autorevoli partner italiani ed europei. Un progetto ampio, colto, attento ai plurimi bisogni della scuola e alle raccomandazioni europee, che ha progettato e prodotto qualcosa che mai si era visto in Italia e si  è poi repentinamente inabissato senza mai essere applicato effettivamente nelle scuole, se non su scala episodica e sperimentale. Dunque se si parla ancora di Polite questo significa molte cose, ma soprattutto si rende esplicita la contraddizione in cui vive da tempo la pedagogia e l’educazione di genere: da una parte una riflessione raffinata e profonda, che riguarda la scuola ma più in generale lo sviluppo e il mutamento delle identità sessuate e le loro relazioni, la produzione di percorsi e materiali formativi di valore, la sperimentazione di tutto ciò in molte scuole di ogni ordine e grado e dall’altra parte un mancato riconoscimento legislativo e istituzionale, che rende tutte queste attività diffuse ma precarie, affidate alle buone volontà di insegnanti, formatrici, enti locali, associazionismo culturale e femminista.

Eppure – ed è stato questo il motivo centrale sia della monografia che del dibattito alla Casa delle donne – si è evidentemente lavorato bene all’interno di questa precarietà se sono iniziati attacchi virulenti, intesi a calunniare questi interventi educativi, manipolandone il significato e usando la locuzione ‘ideologia del gender’che in sé non ha alcun senso se non quello di un tentativo di far sparire una proposta educativa che, secondo i suoi accalorati denigratori, mette in pericolo la solidità dell’istituto famigliare – quello ‘vero e naturale’ padre, madre, figli – e la solidità dei ruoli sessuali tradizionali. Insomma i passi difficili, le faticose conquiste educative di tutti questi anni hanno generato più che un civile dissenso una serie di paure e timori che si sono espresse secondo una scala di interventi che, prevalentemente, ha toccato molti tasti salvo quelli della civiltà e della ragionevolezza, ha usato linguaggi forti, metafore manipolatorie, ha fatto leva su un messaggio confuso e destituito di senso trasformandolo, abbastanza abilmente, in una parola d’ordine facile e accessibile a chiunque, anche se falsa, esentando dalla fatica di esercitarvi troppo pensiero.

I/le combattenti di questa battaglia contro il gender si presentano  in ogni occasione, pubblica o formativa, e uno di loro c’era anche all’incontro alla Casa delle Donne, ma i suoi interventi, ripetuti e abbastanza sconnessi, non hanno disturbato più che tanto lo svolgersi del dibattito che si è tessuto tra le relatrici e il relatore e il pubblico.

Molti i temi naturalmente, poiché quando si parla di educazione e se ne parla nella prospettiva dell’educazione di genere il discorso si amplia e approfondisce e non se ne può – e neppure è lecito farlo – semplificare la pluralità, la complessità. Si è dunque parlato – dopo l’introduzione della coordinatrice Grazia Longoni, della Casa delle Donne e di Silvia Neonato di Leggendaria, che ha esposto alcuni contenuti del numero e vi ha aggiunto una serie di sue considerazioni poi riprese da lei stessa e da altri interventi – della diffusività delle azioni educative di genere sul territorio sotto le diverse dizioni di educazione all’affettività, alle relazioni, educazione sentimentale, mentre non si è mai più usata educazione sessuale, il termine adottato abitualmente negli anni Settanta. Diffusività e, come già dicevo, precarietà di questi interventi in assenza di una legislazione di riferimento, di un chiaro impegno istituzionale.

Si è discusso anche di un tema che non preoccupa solo la scuola, la cosiddetta rigenderizzazione – brutta parola – delle generazioni più giovani: rosa e azzurri che dominano, giocattoli e libri per l’infanzia divisi per sesso, fatine e principesse da una parte, robot e macchinine dall’altra, enfasi sulla femmnilità fin da età tenerissime e richiami alla mascolinità più tradizionale in ogni momento della crescita.

Io non sono troppo pessimista rispetto a questi fenomeni – anche se la mia nipotina di quattro anni mi svolazza intorno con gonnelline che sembrano tutù e vanta schiere di principesse che presidiano la sua cameretta – li considero un inevitabile corollario alle paure del cambiamento, che ne può essere scosso, relativizzato, rallentato, ma non messo in discussione né annullato nei suoi esiti e significati più profondi.

Mi sembra che anche alcune delle esperienze raccontate e discusse nel corso dell’incontro possano sostenere questa mia convinzione, pur all’interno di contraddizioni e difficoltà che da sempre incontriamo. Alessandra Ghimenti, che da alcuni anni sta costruendo una video inchiesta nelle scuole d’Italia sugli stereotipi di genere e sulle immagini di femminilità e mascolinità tra i bambini e le bambine delle scuole elementari, racconta infatti  di boicottaggi al suo lavoro e della persistenza di stereotipi nelle risposte degli intervistati e intervistate, ma anche, per la prima volta, dell’emergere di risposte un po’ diverse, più articolate rispetto alle concezioni tradizionali legate ai ruoli dei due sessi, mostrando tra i bambini e le bambine un’attenzione e una sensibilità finora sconosciute. Eleonora Cirant, sulla base delle sue diverse esperienze, usa a questo proposito alcune immagini efficaci: la sua impressione è che con i ragazzi e le ragazze vi siano aperture al cambiamento, che con loro tutto possa accadere, ma si tratta di una corrente che si muove ancora in superficie e sotto persiste uno zoccolo duro che tuttora si ancora alle culture più tradizionali. E a proposito di mascolinità Alessio Miceli, che insegna in una scuola superiore ed è socio di Maschile plurale, ci parla di quella che lui stesso definisce ‘questione maschile’: fragilità, difficoltà di relazioni con il proprio corpo, disagio, che percepisce nelle giovani generazioni di maschi, il tutto aggravato – e sono più che d’accordo con lui – da un’assenza di figure maschili in educazione, possibili modelli e interlcutori adulti, che vivono  essi stessi una crisi di mutamento. Nell’intervento di Alessio dunque la tematica di genere si declina al maschile e svela, ancora una volta, la sua complessità di significato, la pluralità delle sue possibili interpretazioni. Ne parla Giorgia Serughetti, che di contro alle semplificazioni dei nemici dell’ideologia del gender, prende in considerazione questo termine nella sua innegabile caratteristica polisemica, poiché si tratta di una parola che riassume il divenire storico e di culture, private e sociali, di usi, relazioni, forme e percezioni di sè e degli altri come identità sessuate. Una costruzione che si oppone o si somma o confluisce – e qui le posizioni si diversificano anche all’interno dei movimenti e del pensiero delle donne – con la presunta naturalità dei corpi e dei ruoli sessuali che ne derivano. Siamo così al cuore delle tematiche non solo educative ma delle diverse culture del genere. E nel cuore di un altro tema centrale nei percorsi di pratica e pensiero femminista, il linguaggio, il suo cambiamento e i problemi della comunicazione. Ne parla anche Giovanna Pezzuoli, in particolare dall’osservatorio del blog la 27° ora e il suo discorso nuovamente si allarga fino a toccare un altro tema che riguarda la comunicazione più in generale e la sua difficile relazione con il femminismo. E qui apro un breve inciso per ricordare come anche questo sia una tema educativo e di rapporto tra generazioni, lo sappiamo noi che insegniamo e verifichiamo la difficoltà a parlare di femminismo. Giovanna allora sposta l’attenzione su di noi: cosa abbiamo sbagliato perché del femminismo si abbia una immagine così distorta? Elenca alcune delle possibili risposte: non ci siamo allontanate abbastanza dall’immagine della donna vittima – che infastidisce, aggiungo io, le giovani donne, che vivono, più o meno giustamente, la parità con sentiumento di diritto – non abbiamo sufficientemente riconosciute le nostre complicità all’interno del patriarcato, abbiamo comunicato, infine, con linguaggio complesso, criptico, molto interno e inaccessibile.

Tra gli interventi del pubblico vorrei segnalare solo quello di Lucia Vantini, teologa, che già aveva scritto all’interno della monografia. Lucia segnala le difficoltà delle teologhe che praticano il pensiero di genere: finchè si parla di differenza, afferma, non ci sono problemi all’interno della gerarchia della Chiesa, si tratta di una parola debole che non disturba, ma appena si usa genere le porte si chiudono, si chiudono le orecchie e il contesto respinge. Si tratta si una danno enorme, che danneggia il senso del reale dentro la Chiesa e non solo l’immagine femminile, ma anche quella più complessiva di una chiesa aperta  e inclusiva.

Il dibattito dunque è stato ampio, forse ha solo sfiorato alcuni temi troppo complessi e tra loro connessi, si è peraltro intrecciato anche con i contenuti dell’incontro precedente in cui si era presentata la monografia sui femminismi. Inevitabile questo continuo intrecciarsi dei temi, inevitabile, legittimo e utile, poiché da sempre dichiariamo la non separatezza dei diversi ambiti e piani di vita nelle biografie individuali e collettive, cui deve – ripeto, deve – corrispondere uno sforzo di pensiero altrettanto connesso che mai separi dalla vita, dalle vite di donne e uomini le riflessioni su queste stesse vite. E dunque, e mi scuso per quest’ultimo svolazzo enfatico, proseguiamo, discutendo e connettendo, insieme se lo vorremo.

Ed è più che probabile che lo vorremo.

Barbara Mapelli