Una ventata di futuro e di vera cittadinanza attiva. Questo ci hanno trasmesso con la loro presenza e i loro racconti Lucia Maroni e Marianta Kalin, ospiti della Casa delle Donne per parlarci della straordinaria esperienza delle social street di via Maiocchi e di via Morgagni, di cui sono attivissime protagoniste.

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Nate sull’esempio della prima social street italiana di via Fondazza a Bologna, le iniziative milanesi di via Maiocchi e via Morgagni in pochissimo tempo hanno attratto e aggregato numerose presenze, consolidandosi quasi come una vera e propria comunità, per quanto informale e spontanea.

Una nuova realtà che noi del gruppo “Città bene comune” abbiamo voluto conoscere da vicino, organizzando il 13 giugno un incontro aperto a tutte le socie della Casa.

Era la prima uscita pubblica di “Città bene comune”. All’inizio ci sentivamo un po’ ansiose ed emozionate, ma poi felicemente sorprese, quando abbiamo visto tutte occupate le sedie, anche da giovanissime, incluse due laureande che su questo argomento preparano la tesi, e pure da qualche presenza maschile.

Anche il primo invito/incontro sorprese Lucia quando arrivarono 200 persone per riconoscersi e conoscersi nel vivo di una piazza del quartiere di Via Maiocchi. Così sono nate relazioni di vicinato che hanno messo in gioco idee, energie, bisogni, desideri, competenze… Pur essendo nato e vivendo soprattutto tramite facebook e i nuovi modi di comunicare, il progetto social street è riuscito a raggiungere anche persone che non li utilizzano,  proponendosi come uno strumento di aggregazione trasversale alle generazioni. Aspetto non di poco conto se pensiamo che l’utilizzo massiccio della tecnologia sta progressivamente “tagliando fuori” una larga fetta della popolazione che non riesce a stare al passo coi tempi.

Marianta di via Morgagni ci introduce nel Social raccontando di colazioni della domenica mattina come prime occasioni di incontro a cui sono seguite cucine aperte, visite culturali in abitazioni trasformate in gallerie fotografiche o librerie, giochi nel parchetto per i figli “sociali”. Famiglie elettive di quartiere.

Le persone si aggregano per comuni interessi, necessità, obiettivi e tessono relazioni nuove. Ci si basa sulla gratuità, sull’apertura e sulla fiducia per superare sospetto, diffidenza, indifferenza e paura (qui ci vorrebbe un saggio per interpretare sociologicamente queste nuove dinamiche).

Il femminile appare più entusiasta, capace di intrecciare anche vincoli di spontanea solidarietà nel quotidiano rapporto di vicinato, mentre il maschile tende ad aggregarsi per obiettivi di squadra: i runner, i ciclisti, i podisti… Non dimentichiamo però che è stato un uomo il primo fondatore di una social street. Nella generosa Bologna, nuova per lui, con la giovane famiglia pativa un pesante senso di anonimato, di non appartenenza al quartiere e alla città. Ecco allora l’idea, la costruzione di un evento/incontro su facebook e un po’ di volantini nei negozi che hanno avviato il grande fenomeno social.

Le social street comunicano e si collegano con le altre senza regole precise, con le proprie risorse umane e non solo, qualche volta riescono persino a promuovere miglioramenti urbani nel proprio quartiere, contrastando l’anonimato e l’estraneità reciproca, e quindi creando una percezione di maggiore sicurezza. Questa possibilità di un’esperienza che valorizza il “dentro” senza escludere il “fuori”, la vicinanza e l’appartenenza costituisce un collante per invitare, accogliere anche chi non è della via o addirittura della zona, senza per questo perdere la propria identità territoriale, anzi valorizzandola nel farla conoscere.

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C’è l’ambizione di far crescere il progetto creando reti di relazione con altre associazioni di cittadinanza attiva e “stimolando” il potere politico/amministrativo a confrontarsi con queste nuove forme di aggregazione sociale e con le loro richieste.

Anche la Casa di Via Marsala può essere una preziosa risorsa per il grande quartiere Milano, le donne delle social street sono partite da un computer per arrivare alle case e al loro quartiere, noi abbiamo una grande Casa, un quartiere che non conosciamo ma… il desiderio di andare oltre i muri.

Il forte impegno delle donne, ossia la preponderante presenza di donne come organizzatrici/fruitrici con ruoli “multitasking”, può significare non solo la ricerca di solidarietà e complicità per la gestione delle cose pratiche, ma soprattutto un’esigenza di uscire dalle case e di aprirsi, con coraggio, a nuovi modelli di vita e di relazione.

Negli anni ‘20 del secolo scorso la grande scrittrice Virginia Woolf esortava le giovani a procurarsi una stanza indipendente, anche se misera, purché dotata di serratura alla porta per poter essere libere dai condizionamenti familiari e sociali, qualora avessero voluto fare le scrittrici. Nei medesimi anni in territorio germanico una “madre” dell’architettura moderna, Margarete Schutte-Lihotzky (1897-2000) inventrice della prima cucina razionale moderna, nel progettare la “casa per le donne sole” si poneva come obiettivo prioritario quello di dare a ciascuna una propria unità anche se piccolissima purché indipendente  e “con serratura alla porta”, affinché potessero sviluppare la propria vita libere dai condizionamenti della coabitazione cui spesso le prime lavoratrici inurbate erano costrette dal minore stipendio percepito. Servizi collettivi a livello di piano avrebbero dovuto integrare la dotazione minima dell’alloggio in misura inversamente proporzionale alla dimensione dell’unità privata. All’esterno i servizi di quartiere.

Grazie al percorso delle nostre antenate ora invece le donne possono riabbattere le pareti dell’esclusione spostando/allargando/elasticizzando il confine tra interno/esterno e pubblico/ privato. Questa nuova rivoluzione delle donne dovrebbe produrre un cambiamento anche a livello della progettazione tipologica degli alloggi, della loro aggregazione e del rapporto con la città.

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Partendo da sé, le giovani organizzatrici di social street  hanno riscoperto e rinnovato una tradizione che un tempo a Milano esisteva, quella delle case di ringhiera dove tutti si conoscevano e si davano una mano, con i bambini che giocavano nei cortili. Hanno dato voce e strumenti a un bisogno di aggregazione che già c’era: uscire dall’isolamento, migliorare la qualità della vita. Ed ecco le feste, gli aperitivi, le serate alla bocciofila amorosamente gestita, i picnic di strada, i progetti di visite guidate, di passeggiate artistiche, di orti di quartiere, di gruppi d’acquisto solidali, e i concerti, le jam sessions, le richieste di aiuto per lavori pagati sì ma a buon prezzo… Le notizie circolano incessantemente sulla pagina facebook creando una rete di intrecci virtuosi che dà senso e identità all’abitare vicini.

Naturalmente c’è qualche problema di affrontare. Restare spazio per incontri o diventare associazione di affinità? E continuare a essere gruppi spontanei, oppure costituirsi in associazione per poter interloquire con le istituzioni locali, ad esempio quando si chiede l’uso di suolo pubblico?

Qui si apre un discorso davvero importante. Lucia e Maranta puntano al riconoscimento ufficiale delle social street come esperienza di cittadinanza attiva. A Bologna esiste già un assessorato alla cittadinanza attiva, con relativo regolamento.

Per noi di “Città bene comune” questo è un obiettivo perfetto. Fra le nostre priorità c’è proprio la volontà di esplorare le nuove pratiche di trasformazione della polis che le donne mettono in atto, creando reti e sinergie.  L’incontro con le “donne in primo piano” delle social street è stato quindi entusiasmante, ricco di idee e di stimoli. Si è creato un bellissimo rapporto di conoscenza e di scambio che tutte siamo intenzionate a proseguire nelle strade della città “bene comune” e nella Casa delle donne.

N.B.: Questo articolo è frutto di un lavoro corale del gruppo “Città bene comune – Laboratorio di democrazia partecipata dal punto di vista di genere”

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