Sabato 23 novembre, nello spazio da Vivere della Casa, una platea gremita ha incontrato la regista iraniana Camelia Ghazali, insieme alle attrici della sua compagnia e al drammaturgo Toomaj Daneshbehzadi, che ha fondato con lei il Praxis Theatre Group di Teheran.
È stato come essere trasportati per poche ore in un universo remoto, eppure in qualche modo famigliare. Una sensazione che è anche la cifra dello spettacolo “I’m a woman. Do you hear me?”, andato in scena dal 20 al 23 novembre al Piccolo Teatro Studio.
Camelia Ghazali, classe 1985, autrice e regista, spiega: “Mi interessa la condizione della donna in Iran, ma credo che certi meccanismi agiscano a tutte le latitudini. Essere donna significa fare più fatica, temere di non essere ascoltata, considerata”. Da qui il titolo. Sollecitata dalle domande di Parisina Dettoni e Anita Sonego, Camelia Ghazali ricostruisce la genesi dello spettacolo: in un momento di particolare difficoltà della sua vita aveva cominciato a scrivere poesie, poi le poesie sono diventate un testo e questo testo è andato in scena, con grande successo di pubblico. “La vita femminile è fisiologicamente intrecciata alla sofferenza (mestruazioni, pubertà, gravidanza…) Ma si tratta di qualcosa di naturale. Se invece ci si confronta con la società questo dolore diventa insopportabile perché la voce della donna viene proditoriamente ignorata”. È un grande lavoro sul corpo quello fatto dalla compagnia.
Toomaj Daneshbehzadi sostiene che “l’unico tramite per avvicinarci ai sentimenti è la poesia e il corpo è il tramite della poesia. Nessuno dei movimenti che facciamo, in scena come nella vita, è senza sentimento. Ogni movimento trasmette emozione”.
Oltre a quello del corpo, ha fatto notare la coordinatrice dell’incontro Anna Piletti, che si occupa della formazione e degli eventi culturali per il Piccolo Teatro, il tema della voce e del respiro è ricorrente nella pièce di Ghazali: donne che non riescono a tirare il fiato, che non trovano qualcuno che le ascolti, che vorrebbero cantare, ma non possono – perché in Iran una donna non può cantare da solista.
Lo spettacolo è articolato in quadri, senza un filo narrativo tradizionale. Le attrici recitano monologhi, danno voce ai pensieri di una donna, frantumata in diversi corpi. C’è la sposa bambina che la notte del suo matrimonio si dà fuoco. La donna incinta terrorizzata all’idea di partorire di nuovo una femmina, come terrorizzate erano state sua madre e sua nonna prima di lei (“Quando nacqui nessun cavallo nitrì per me. Nemmeno mio padre sparò un proiettile in cielo per me. Non ci fu nessun fuoco acceso per me. Il cielo era in lutto. Nessuna stella splendeva…”). La donna cacciata di casa che si prostituisce. La donna che soffre per amore e per l’abbandono.
“Volevamo mostrare le tante facce della solitudine delle donne – aggiunge l’attrice Setareh Eskandari che ha collaborato alla stesura del testo – ma anche la loro forza, che viene dalla natura ma soprattutto da dentro. E in chiusura, finalmente una di noi canta, da sola. È un canto che riassume la storia di tutte. È il nostro messaggio più importante: dare coraggio alle altre”.
Chi tra il pubblico aveva già assistito allo spettacolo lo ha definito “magico”, “poetico”, “affascinante”. Alcune domande hanno riguardato il “cavallo” sempre presente in scena: l’unico attore uomo della compagnia, che non pronuncia mai una parola, si sposta sul palcoscenico con la testa coperta da una folta criniera simulando le movenze dell’animale e incalzando le donne durante i loro monologhi. C’è chi l’ha trovato un simbolo poco comprensibile o un po’ superfluo. Soroush Kariminejad che lo interpreta – ed è uno dei più bravi danzatori dell’Iran – ha spiegato che “nella cultura persiana il cavallo è un simbolo molto importante e in questo spettacolo rappresenta, per tutte le donne che vengono alla ribalta con la loro storia, l’ostacolo, l’impedimento, il blocco.”
Uno dei momenti più sorprendenti e toccanti della serata è stato quando una delle attrici della compagnia si è alzata ed ha annunciato che aveva scritto e voleva leggere un suo breve testo. “Sono una donna e fin dalla nascita subisco violenza e discriminazioni. Violenza fisica e mentale. Discriminazioni oggi come in ogni periodo della storia… Sono un essere umano e vorrei essere trattata come tutti gli altri esseri umani”. Queste parole, così semplici e vere, hanno reso ancora più evidente il legame, già sottolineato in apertura, tra l’incontro alla Casa, la giornata del 25 novembre e la manifestazione di Roma, dove nelle stesse ore in 100.000 stavano manifestando contro la violenza sulle donne.
Liliana Belletti