Come se i pensieri fossero di neve. Acqua che goccia da stalattiti di ghiaccio sottile, da merletti di brina. Tutto è sospeso in un tempo immobile, freddo, nonostante la primavera incipiente. Il mondo, con i suoi conflitti, le sue tragedie, le sue immense ingiustizie è attratto, come stella da un buco nero, in un vortice di vuoto estraneo, aperto da una necessità che ha i tratti del destino e nel quale scompare.
Difficile pensare alle vite che stanno al di là dell’orizzonte nuovo e apparentemente deserto nel quale ci muoviamo, quelle dei profughi, dei poveri della terra, delle vittime dei poteri degli stati asserviti a logiche di guerra, di sfruttamento, d’ingiustizia. Un sentimento di colpa mi accompagna nel sentire questo di più d’indifferenza, così come, con lo stesso confuso senso di colpa, riconosco un’urgenza di risposte, altalenante tra speranza e fatalismo, nell’angoscia che serpeggia in questo tempo, inedito, in cui tutto l’immaginabile, l’auspicabile, il pensabile, è momentaneamente sospeso, rimandato a un sine die ignoto, imprevedibile.
Una singolarità dell’essere definita da caratteristiche improvvisamente aliene al normale vivere sociale, normalmente basato anche sull’incontro, sul rispecchiamento reciproco, sul riconoscersi. Tra noi, una separatezza misurata da un braccio, ma allungata a dismisura dall’ansia, da una chiusura all’interno del proprio spazio, anche intimo, in cui l’altro potrebbe verosimilmente essere portatore di un pericoloso contagio e anche in questo caso la difficoltà a misurare il pericolo, che potrebbe essere diverso a seconda della risposta del sistema immunitario di ciascuno (in particolare: quale risposta avrebbe il mio organismo?). La paura è emozione, tutto sommato, sana. Ha lo scopo specifico di allertare l’individuo di fronte al pericolo e attivarlo per la predisposizione di difese efficaci. L’ansia, invece, è dominata dall’incertezza, con un effetto paralizzante. Il tempo si dilata. Un’apprensione del tempo.
Abituate a non averne, a correre, a rimandare, si ha l’occasione di una messa a disposizione che ben potrebbe essere usata. In realtà, di fatto, risulta anch’essa sfuggente, come l’occasione di una libertà non richiesta, più simile a un rapporto, con il vivere, compromesso, a una sorta di tradimento di quelle certezze che, inconsapevolmente, ci hanno sorretto – un mondo in cui quasi tutto è curabile. Certo, il cancro non lo è ancora, ma le aspettative di vita sono aumentate e soprattutto non ha i caratteri della pandemia né si trasmette per contagio. Il tempo cade nell’attesa. Attesa che passi, che presto tutto torni come prima.
Prima dell’dea di pandemia globale, prima dello scenario da fine dei giorni che si apre su una città deserta come mai l’abbiamo vista, protagonisti involontari di quello che assomiglia a un film di fantascienza.
Chiamati/e d’improvviso al sentimento della collettività, dopo la costruzione d’un individualismo “totale”, in cui ciascuno è illusorio protagonista della propria singolarità, abituati al conflitto tra sé e l’altro, eccoci gettati dentro un noi soffocante, indistinto, indifferenziato. Un richiamo alla responsabilità collettiva, al dovere verso il bene comune, che coincide in quest’oggi con il nostro proprio bene (ma cosa rimane del mio essere unico e singolare?). Un bene comune che trova legame sociale in forme e risposte che appaiono, strategie infantili, come cantare sui balconi, accendere candele alle finestre, issare la bandiera nazionale sul balcone, pregare o meditare – c’è una specie di ritorno all’infanzia. Altri, come genitori, decidono i tempi e le modalità del nostro vivere sociale. Aleggiano sordi desideri di sfida e ribellione, accanto ad atteggiamenti di ordine e obbedienza assoluti.
Ci troviamo di fronte alla fatica di costruire spazi virtuali, di confronto tra noi e coloro che sono entrati, in vari modi, a far parte della nostra quotidianità e che ci mancano. Ci sono poi persone che non parlano con nessuno tutto il giorno, soprattutto anziani, ma anche persone separate, semplicemente sole, alle quali non bastano gli spazi virtuali, sempre che possano davvero bastare. E’ davvero una sfida, riuscire a mantenere la connessione intima, profonda con noi stesse e coloro che amiamo, così come con il resto del mondo. Questo mi sembra essere il compito che ci attende in questo difficile presente, Ci viene richiesta una sorta di rimodulazione del concetto stesso di relazione.