Favorire l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) per via farmacologica, attraverso la pillola RU 486 di cui si parla da oltre un decennio. Sembra la cosa ovvia in questa emergenza, quando sale operatorie e anestesisti, necessari per l’IVG chirurgica, sono quanto mai impegnati in altre funzioni. C’è un appello su cui Prochoice, rete per la contraccezione e l’aborto, ha già raccolto molte importanti adesioni (vedi altro articolo). Due le richieste più urgenti: estendere il limite delle 7 settimane (dall’ultima mestruazione) previste in Italia per accedere al farmaco a 9 settimane, come in tutta Europa e come da foglio illustrativo, e garantire l’accesso al servizio in day hospital anche presso ambulatori autorizzati come i consultori.
L’appello, lanciato il 15 marzo scorso, ha avuto un’insperata eco da parte di importanti soggetti scientifici nazionali, come la Sigo (la potente società di ginecologia) che, pur non avendo firmato l’appello, lo ha di fatto copiato in un proprio comunicato.
Ma molto resta ancora da esigere e da fare. Ne abbiamo parlato venerdì 10 aprile nel primo dei nostri incontri online. Filomena Rosiello, della Casa delle Donne, ha introdotto il dibattito che potete ascoltare nel video. Hanno partecipato Anna Uglietti (già responsabile per la 194 alla Mangiagalli e ora attivista di Prochoice), Daniela Fantini (ginecologa attiva in un consultorio pubblico e nello storico consultorio laico Cemp), Eleonora Cirant, attivista e autrice di libri sul tema, Paola Bocci (consigliera regionale PD) e una ragazza, E., (non registrata per garantirle l’anonimato) che ha recentemente abortito per via farmacologica. E. ha raccontato il suo disagio per non sapere dove andare, una volta deciso di interrompere la gravidanza. Poi, saputo che a Milano funzionava il servizio della Mangiagalli, ha dovuto mettersi in coda per tre volte alle 7 del mattino per riuscire finalmente a ottenere un appuntamento e poi recarsi in ospedale altre due volte per l’aborto farmacologico. Una trafila che può facilmente portare fuori dal limite delle 7 settimane, anche se lei alla fine si è sentita trattata “con rispetto e discrezione”.
Proprio all’esperienza di E. si riferiscono alcune delle richieste avanzate dalle intervenute: togliere dagli ospedali e rendere disponibile sul territorio il servizio di IVG farmacologica, assicurando alle donne un unico accesso (in day hospital) alle strutture e seguendole poi a casa con la telemedicina; pubblicare sul sito dell’Asst e della Regione l’elenco degli ospedali che offrono il servizio e dei consultori aperti in questo periodo; dotare i consultori che ne sono ancora sprovvisti di un ecografo (per datare la gravidanza bastano quelli dismessi dagli ospedali) e di un ecografista. Si tratta di un primo passo che potrà indicare una strada anche per il futuro. Oggi, per resistenze puramente ideologiche, l’aborto farmacologico rappresenta solo il 18% dei casi di IVG a livello nazionale e meno dell’8% in Lombardia, di fronte al 40% di regioni vicine come la Liguria e il Piemonte e al 95-97% della Francia e del Nord Europa. È invece di fatto superata dal 2019, anche in Lombardia, l’assurda imposizione di tre giorni di degenza ospedaliera che era in vigore in precedenza.
Grazia Longoni