di Grazia Longoni

Se qualcuno si era illuso che la pandemia ci avrebbe fatto diventare più tolleranti, la violenta gazzarra che si è scatenata contro Silvia Romano su alcuni media (ma anche in Parlamento) ne è la più chiara smentita. La dichiarata conversione all’Islam di una ragazza che è stata per 18 mesi prigioniera di spietati assassini e che ha avuto tra le mani, unico libro, il Corano, non è l’unico fattore scatenante di questa rabbia violenta. Come dice Susan Dabbous, (il Manifesto) giornalista italio-siriana rapita in Siria nel 2013 insieme ad altri giornalisti Rai “l’accanimento mediatico verso giovani donne, dotate di intelletto e coraggio, è dato da misoginia e atroce invidia”.

Del resto, possiamo ricordare la vicenda di Simona Torretta e Simona Pari, rapite a Bagdad nel 2004 e definite dal titolo di apertura del Giornale “oche giulive” perché al loro rientro sorridevano.

Oppure quella di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, rapite in Siria nel 2005: nonostante al ritorno fossero visibilmente sotto choc, vennero usate vecchie foto in cui apparivano sorridenti per scrivere che erano “andate a divertirsi”. Per nessuno dei maschi rapiti e liberati in situazioni analoghe è stato usato lo stesso trattamento.

Ma questo odio per le scelte di libertà di giovani donne si accompagna a una voluta ignoranza della situazione di non libertà in cui si sono trovate da prigioniere. Ne parla per esempio Dacia Maraini sull’Huffington Post ricordando i suoi due anni in un campo di concentramento in Giappone. “Non si può essere liberi, nemmeno spiritualmente, quando si è nelle mani dei propri carcerieri. Io non lo ero. Provi una tale condizione di terrore, angoscia, provvisorietà, che non c’è bisogno che nessuno ti ordini nulla per obbedire. Silvia è stata in questa condizione per mesi. Non sapeva cosa avrebbero fatto di lei. Se l’avrebbero uccisa, picchiata, oppure stuprata. La religione può esserle apparsa come una salvezza. L’unica che aveva”.

Conferma Giuliana Sgrena, rapita per un mese a Bagdad nel 2005, in alcune recenti interviste televisive: “Il problema è che la violenza psicologica è persino più terribile, magari non si avverte subito ma è traumatizzante e subdola. Io ho cercato di reagire al mio sequestro comportandomi bene, sono resistita e dopo un mese tutto è finito, ma non riesco a immaginare cos’abbia sopportato Silvia in 18 mesi”.

Maryan Ismail, somala in Italia da 35 anni, docente di antropologia dell’immigrazione, il cui fratello è stato vittima dei jihadisti di Al Shabab, nella sua “Lettera a Silvia Romano” (Milano Post) scrive: “Si riesce soltanto ad immaginare lo spavento, la paura, l’impotenza, la fragilità e il terrore in cui ci si viene a trovare. E bastava leggere i racconti delle sorelle yazide, curde, afgane, somale, irachene, libiche, yemenite per capire il dolore in cui si sprofonda. Comprendo tutto di Silvia. Al suo posto mi sarei convertita a qualsiasi cosa pur di resistere, per non morire. Mi sarei immediatamente adeguata a qualsiasi cosa mi avessero proposto, pur di sopravvivere”.