di Donatella di Pietrantonio
(Einaudi, 2017)
L’Arminuta, la ritornata, come la chiamano in paese, nel romanzo non appare il suo nome, una lingua intima e corale insieme lo sostituisce, mentre discopre man mano quello che le è successo e che la trasporta in un doppio tra due madri, due famiglie, due lingue, due culture: quella nella città sul mare, trio familiare ‘normale’, in realtà parenti ‘adottivi’, dove non le mancava nulla e quella popolana, in una casa piccola, buia, con poco cibo e brusca anche violenta schiettezza, del paese d’origine, un interno d’Abruzzo anni settanta, dove si ritrova, a tredici anni, diversa e quinta figlia data ormai come appartenente a un altrove…
Se non fosse che qualcosa è successo ad Adalgisa, la ‘seconda madre’ ed è stata riportata, anzi depositata lì dal ‘secondo padre’, carabiniere, con una valigia e un sacchetto di scarpe in mano, davanti a quella porta sconosciuta. Ad aprirle sua sorella Adriana… «una bambina con le trecce allentate, vecchie di qualche giorno. Era mia sorella, ma non l’avevo mai vista, Ha scostato l’anta per farmi entrare, tenendomi addosso gli occhi pungenti. Ci somigliavamo allora, più che da adulte.» E questa somiglianza che appare all’inizio, nell’unica paginetta del capitolo I, già le accomuna, comunanza che si snoda fino al cap. 33, l'ultimo, in un voler bene che procede tra il sorprendersi a volte aspro ma tenerissimo, l’affezionarsi, il proteggersi, il riconoscersi nel valore di sé… «Mia sorella. come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate.»
L’Arminuta dal “non detto” e dal doppio abbandono, Adriana dal suo chiuso orizzonte, l’Arminuta brillante a scuola, la piccola Adriana svelta di lingua e capace nella sua scuola di vita.
Con intensa presenza espressiva l’autrice delinea queste figure femminili e tra quelle maschili Vincenzo, il fratello grande che guarda come a un amore la sorella ritrovata, Vincenzo, le sue fughe fra gli zingari e il suo breve destino.
Delinea un materno spezzato fra antico e nuovi codici, entra nel cuore della responsabilità e della cura e, come anche nel suo romanzo d’esordio, Mia madre è un fiume, il poter emergere nelle figlie di un’ individualità donna.
Anche la prima madre, quella biologica, non ha nome, è nominata solo con la sua funzione, madre, e ne deriva un’ ulteriore deprivazione, scalfita solo in alcuni tratti a volte da parole che cercano di trovare un varco a un sentire su cui non ha avuto spazio. Così
nel lutto per il figlio precipita in un silenzio ancestrale che dissenna e che può però ancora sciogliersi al casolare delle acacie da Nonna Carmela, la guaritrice centenaria, che l’aspetta sotto una quercia, rugosa come lei… Cosi come la sua terra, quell’ Abruzzo poco
conosciuto, ruvido e aspro, che s’accende col riflesso del mare, che ritorna nel romanzo, riflesso di libertà da convenzioni e destino.