di Antonella Polisena.
In principio accade su Instagram: una giovanissima Luce Scheggi (@luceschgg), 21 anni, con un video intitolato “La legge dei 6 mesi” racconta la sua esperienza di survivor – cioè di vittima di stupro che a fronte della propria esperienza, diventa poi attivista. Luce si riferisce a una norma, valida fino al 2019, secondo cui la querela per violenza sessuale poteva essere presentata entro sei mesi dal fatto. Oggi questo termine è portato a 12 mesi.
Poi su Facebook: in una raccapricciante arringa a difesa del figlio – indagato per violenza sessuale insieme a quattro suoi amici – Beppe Grillo adduce il tempo (otto giorni) che la ragazza avrebbe aspettato per esporre querela, come argomentazione per dubitare della sua attendibilità.
Si torna, per quanto in modi diversi, a parlare del termine previsto dalla legge per esporre querela nel caso di violenza sessuale.
Servirebbe avere più tempo? È possibile questo?
Facciamo alcune osservazioni. Premessa: Il reato di violenza sessuale, disciplinato all’art. 609 bis, è un reato contro la libertà sessuale della persona, costituzionalmente garantita, e posto “a presidio libertà personale dell’individuo, che deve poter compiere atti sessuali in assoluta autonomia e libertà, contro ogni possibile condizionamento, fisico o morale, e contro ogni non consentita e non voluta intrusione nella propria sfera intima, anche se attuata con l’inganno” (Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 9 aprile 2021 n. 13278). Al di là della norma e del bene giuridico tutelato, vi è una situazione di fatto complessa e spesso ostica (se non ostile) per chi decida di denunciare.
Vediamo perché:
Procedibilità: tranne in casi specifici di ipotesi aggravate (es. la commissione del reato a danno del convivente o se il fatto è connesso con un altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio come per il reato di maltrattamenti), il reato è procedibile solo a seguito della querela formulata dalla persona offesa entro 12 mesi dal fatto. Questo significa che nessuno all’infuori della vittima ha la capacità avviare il procedimento penale
Prove: la violenza sessuale è un reato che avviene lontano da testimoni, e che difficilmente lascia prove oggettivamente riscontrabili. Per questo motivo la Cassazione ha affermato che nei casi di violenza sessuale, l’imputato può essere condannato sulla base della sola dichiarazione della persona offesa, senza la necessità di ulteriori elementi probatori, la quale dichiarazione deve essere sottoposta a un vaglio estremamente rigoroso per evitare errori giudiziari.
Tutti questi fattori generano grande frustrazione e angoscia tra le vittime di stupro: sia tra quelle che hanno denunciato e si trovano nel mezzo di contestazioni e lungaggini del procedimento, sia tra quelle che per questi problemi hanno deciso di non denunciare il loro aggressore. Come dice la stessa Luce: denunciare è come andare in guerra.
Ma le difficoltà che la vittima si trova a fronteggiare non sono solo normative. La maggiore insidia, infatti, sta nella vittimizzazione secondaria: nella sofferenza psicologica per come i media raccontano il fatto, per il dover rieditare il racconto durante l’iter processuale e – come abbiamo potuto di recente constatare – dallo sminuire, dubitare e ridicolizzare chi denunci la violenza. In una sentenza del 2019 (n.2422) la Giudice Paola Di Nicola scrive: “è indispensabile che il percorso di tutela e di emersione della violenza subita sia volto a rassicurare (la vittima) e a proteggerla […] e ciò non avviene quando le Autorità (…) giungono, inconsapevolmente a non tenere conto degli stereotipi di genere che rischiano di violare i diritti fondamentali riconosciuti nella stessa disciplina”. Proprio la discussione sulla vittimizzazione secondaria ci fa comprendere come lo strumento penale sia un’arma spuntata ci si perde in una spasmodica e ostinata fiducia nello stesso.
Servirebbe una strategia complessiva di contrasto, che permetta di coinvolgere ambiti diversi da quello penale ma ugualmente efficaci. Per esempio l’ambito sociale e formativo e l’esperienza/formazione dei centri antiviolenza con le loro operatrici. È necessario pensare in un’ottica di progettualità che coinvolga, da prima della querela sino alla conclusione del processo, figure professionali come le psicologhe e le operatrici dei centri antiviolenza. Questo coinvolgimento allarga il significato sociale e culturale del tema violenza, sia contestando un pensiero culturale retrogrado e patriarcale, sia tutelando le vittime e facendole sentire sicure e sostenute dal momento della querela fino a tutto lo svolgersi del processo.
Questa visione contribuisce a un’ottica di prevenzione dei reati attraverso la creazione (con necessario stanziamento di fondi) di un sistema che colleghi i diversi ambiti coinvolti nella violenza. Invece non sembra né realistico né utile prolungare la durata dei tempi previsti per la querela.
Il racconto coraggioso di Luce ha il grande merito di portare a galla una questione rilevante, ma rimarrebbe sterile se non venisse preso come spunto per portare avanti un ragionamento più ampio, dettagliato e complessivo.