di Rifka Al-Amya.
Cosa pensano oggi le donne che vivono a Gaza, sotto l’ennesimo bombardamento israeliano, seguito ai violenti scontri dovuti agli sfratti di massa dei palestinesi di Gerusalemme e al lancio di razzi da parte di Hamas? Devo a JfjfP (Jews for Justice for Palestinians) la segnalazione di questo articolo pubblicato su “Mondoweiss”, un sito web indipendente che informa su Israele/Palestina e sulle politiche degli Stati Uniti sulla questione. L’articolo, molto lungo, è stato tagliato da me. L’autrice è un’attivista del BDS che vive a Gaza e che abitualmente scrive in arabo sulla liberazione delle donne. Per stare vicino anche a Rifka partecipiamo al Presidio di solidarietà con il popolo palestinese che si tiene a Milano in Piazza Duomo, il 13 maggio alle 17:30 (Paola Redaelli)
L’artista afro-americana Nina Simone, che fu anche un’attivista del Movimento americano per i diritti civili, dovette misurarsi con la più radicale svolta della sua vita quando il Curtis Institute of Music [forse la più prestigiosa scuola per musicisti degli Stati Uniti, ndt.] rifiutò la sua domanda di iscrizione perché aveva la pelle nera. […] Lei stessa ebbe a raccontare della sua delusione per il fatto che le era stata negata l’opportunità di essere la prima pianista nera di musica classica degli Stati Uniti. […] Poco tempo prima di morire nel 2003, con sua enorme sorpresa, ricevette un diploma ad honorem dallo stesso istituto che l’aveva rifiutata molti anni prima.
Questa vicenda ci spinge a fermarci un attimo e a riflettere sui caratteri fondamentali del pensiero coloniale. Che cosa mai era successo perché il Curtis Institute of Music si scusasse per il suo razzismo? Perché una potenza razzista di quel calibro, che gode di enormi privilegi, dovrebbe rivedere la sua posizione rispetto ai diritti degli oppressi? La risposta sta nell’eredità cumulativa della resistenza del popolo nero.
Tenendo conto delle lezioni apprese dalla lotta delle donne nere nel corso dei decenni, noi, donne palestinesi, siamo arrivate alla conclusione che è giunto il momento di abbracciare il femminismo intersezionale e la sua lotta contro il monopolio teorico del femminismo delle donne bianche della classe media. Il femminismo bianco della classe media ignora la razza, la classe e soprattutto il colonialismo, che è proprio ciò che noi non possiamo elidere dal contesto in cui si svolge la nostra lotta sociale e di liberazione.
Il femminismo intersezionale invece riconosce che il patriarcato, il capitalismo, il razzismo e il colonialismo sono fattori di oppressione che, sia pur tra loro diversi, tendono tutti alla disumanizzazione dell’“Altro”.
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Ripensando l’esperienza di Nina Simone e quelle delle donne di colore degli Stati Uniti, del Sud Africa, dell’America Latina, siamo convinte che sia necessario avere una visione chiara di quella che ha da essere la nostra resistenza palestinese, se vogliamo raggiungere l’obiettivo di costringere i sionisti a farci delle “storiche scuse”.
Dunque la questione è: come smantellare l’ideologia razzista? O, in altre parole, come deve essere il futuro che vogliamo?
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Il movimento di liberazione palestinese ha dovuto sostenere molte sfide storiche. Dopo aver abbracciato inizialmente il principio della totale liberazione della Palestina storica, è caduto nella trappola della cosiddetta “soluzione ad interim” che lo ha portato a fare dei compromessi sui nostri diritti fondamentali con gli Accordi di Oslo e successivamente con l’istaurazione dell’Autorità di autogoverno palestinese.
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Per di più, l’apartheid israeliano ha reso impossibile la “soluzione dei due stati” attraverso l’espansione delle colonie israeliane esistenti nella West Bank, l’imposizione dello stato di assedio alla Striscia di Gaza, l’annessione di Gerusalemme dichiarata per l’eternità capitale del solo Stato d’Israele. Si tratta di atti e misure sostanziali che hanno creato delle situazioni concrete irreversibili alle quali si aggiunge il fatto che la popolazione palestinese è stata spezzettata e confinata in aree isolate le une dalle altre, ciascuna con i suoi problemi che non collimano con quelli delle altre.
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Se analizziamo l’esperienza degli altri popoli colonizzati e oppressi, capiamo che noi, donne palestinesi, abbiamo la possibilità di immaginare un futuro più giusto, coerente con i nostri principi che si fondano sull’idea dell’uguaglianza per tutti. Quale prospettiva migliore che quella di battersi per uno stato democratico unico per tutti gli abitanti della Palestina storica, senza distinzione di religione, razza o genere?
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Come il regime di apartheid in Sud Africa fu smantellato e il popolo sudafricano elesse Nelson Mandela primo presidente nero dopo che era stato un prigioniero politico per 27 anni, così noi vogliamo che sia smantellato l’apartheid israeliano e che siano eliminati i privilegi coloniali sionisti.
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Questa prospettiva può apparire utopica anche perché la nostra visione della liberazione è stata distorta dell’ideologia “escludente” dei due stati. Tuttavia, la soluzione di un unico stato democratico è l’unica che possa garantire i nostri basilari diritti umani, incluso il diritto al ritorno e quello di autodeterminazione.
A questa soluzione si può arrivare attraverso un’alleanza tra palestinesi e israeliani antisionisti disposti a sostenere il diritto al ritorno, a rinunciare ai privilegi di cui godono in quanto discendenti dei colonizzatori e a condividere la lotta per un futuro migliore per tutti. […]