Sabato 23 e domenica 24 ottobre 2021 si è tenuto il Seminario internazionale “Cura e Incuria. Il mondo alla prova della pandemia e oltre… Pensieri e pratiche femministe”, organizzato da FemmSdC group, con la collaborazione di Global Dialogue e Transform Europe. L’evento si è svolto con tre postazioni in presenza, Roma-Lecce-Bologna, e anche con interventi online. Hanno partecipato donne, femministe e attiviste di tutto il mondo, portando una straordinaria ricchezza di testimonianze, di pratiche, di pensiero e di proposte, che tutte convergono nella grande sfida del cambiamento all’insegna della rivoluzione della cura. Una rivoluzione femminista per il futuro di tutte e di tutti, e del pianeta. Qui pubblichiamo l’intervento della nostra Floriana Lipparini che ha parlato di come si affronta il tema della Cura alla Casa delle Donne di Milano.
Grazie per questo invito che ci ha dato la possibilità di ascoltare i meravigliosi interventi di tante donne che nei luoghi più difficili, nel Sud del mondo e non solo, lottano con incredibile forza e capacità.
Ascoltandole si è confermata in me l’idea che per uscire davvero dal sistema patriarcale/capitalista/coloniale dobbiamo anche uscire dallo sguardo occidentale sul mondo e connetterci con quelle realtà dove le donne preservano i fondamenti della vita non solo per loro stesse ma anche per noi, per la vita di chi abita su questo pianeta e per il pianeta stesso. Acque, semi, alberi, fiumi, api, farfalle, tutto ciò che deve rinnovarsi e rigenerarsi e che è sempre più in pericolo.
Pericolo che sulla vita delle donne sta aggravandosi in modi devastanti, non soltanto per l’impatto della pandemia che nei paesi del Sud del mondo ha colpito soprattutto loro, con penuria di cibo, aumento della povertà e scarsità se non addirittura mancanza di vaccini, ma anche per l’effetto delle crisi politiche e delle guerre imperialistiche che non finiscono di produrre i loro tragici effetti, come è accaduto ora in Afghanistan.
Ma tornando al tema di questo seminario, vorrei dire che già da alcuni anni alla Casa delle Donne di Milano abbiamo cercato di occuparci di cura in diversi modi, con un gruppo chiamato Città bene comune e anche con la Rete femminista No Muri no Recinti, nata attorno a un appello lanciato all’Europa nel 2015 per chiedere di aprire le frontiere, organizzare corridoi umanitari e dare permessi di soggiorno in particolare alle donne migranti.
Era un modo per occuparci della cura incarnata: come vivono i corpi delle donne nella città, che qualità della vita ci consente la governance patriarcale delle città e dei territori, e cosa accade ai corpi delle migranti in pericolo e violati durante tutto il percorso migratorio, corpi di cui nessuno sente di doversi prendere cura. Abbiamo cercato di creare consapevolezza fra di noi su questi elementi fondanti delle nostre società.
Interrogarsi sulla qualità della vita nelle città può consentire un inizio di rivoluzione femminista perché ci si scontra subito con tutto lo schema e le conseguenze del modello patriarcale sviluppista, produttivista, predatorio, un modello tra l’altro sempre più classista che ci toglie l’aria per respirare, il suolo per abitare, creando al centro delle città isole di privilegio che si allargano sempre di più, gentrificando tutte le altre zone e spingendo verso l’esterno, verso l’esilio gente normale, la cosiddetta classe media proletarizzata sempre più lontana dal poter sostenere i costi della vita nelle città da vetrina degli archistar.
Lavorando su questi temi abbiamo dunque capito che il concetto di cura non può appartenere solo alla dimensione personale ma occorre trasferirlo al senso di appartenenza ad una comunità e al territorio che la ospita, se vogliamo realizzare quella trasformazione profonda di cui abbiamo bisogno per la salute nostra, delle nuove generazioni e del pianeta.
All’arrivo del Covid le attività si sono ovviamente fermate e abbiamo tutte corso il rischio della solitudine, del silenzio, dell’isolamento e della paura. Allora è molto spontaneamente nata l’idea di contrastare tutto questo costruendo un tavolo online dedicato proprio alla cura, attraverso cui scambiarci non solo informazioni utili ma anche dirci quel che ci stava accadendo e come la cura entrava nelle nostre vite. Parlarci e ascoltarci partendo da noi, sempre valido principio femminista. Da quelle riflessioni, che abbiamo chiamato strategie personali di sopravvivenza all’epoca del Covid, è nato un dossier che adesso vogliamo pubblicare. Non è un lavoro chiuso ma dinamico perché può evolvere e arricchirsi.
Ma nel medesimo tempo abbiamo sentito la necessità di entrare in connessione con tanti altri luoghi di donne, ad esempio con l’assemblea della Magnolia, per condividere un discorso comune sull’urgenza e la necessità del cambiamento, che possiamo sintetizzare in alcuni punti chiave: 1. Niente più come prima. 2. La rivoluzione della cura. 3. Uscire dal sistema patriarcale fondato sul profitto che ci ha condotto al disastro.
Queste le parole chiave che condividiamo non solo con le donne italiane ma, a quanto abbiamo ascoltato, con femministe di tutto il mondo, e questo ci dà grandissima forza.
Che cosa può significare allora immaginare il futuro uscendo radicalmente dallo schema patriarcale/capitalista/coloniale che governa ogni cosa e non soltanto pensando a correttivi del modello? Che cosa significa in concreto rovesciare la piramide patriarcale, cambiare le priorità, le gerarchie che hanno prodotto tremende diseguaglianze e attribuire invece il massimo valore politico, umano e sociale alla riproduzione dell’esistenza individuale e collettiva nelle case, nelle città, nel territorio? Come riappropriarci del bene comune e dei beni comuni in un’ottica femminista?
Si tratta ormai di dare vita a una radicale conversione culturale, sociale, politica, energetica e direi filosofica che riguarda le basi delle nostre società. Si tratta di rovesciare le gerarchie fondate sul produttivismo predatorio, sulla selezione dei “migliori”, sulla crescente oligarchia finanziaria e tecnologica, tendenze che insieme all’emergenza sanitaria stanno progressivamente disumanizzando e smaterializzando gli spazi, le vite, i rapporti… e desertificando lo spazio pubblico comune, le preziose agorà di cui parlava Hannah Arendt dove ci s’incontra per esistere politicamente come soggetti.
Per noi femministe opporsi a tutto questo non è solo un desiderio profondo ma anche un compito, visionario e insieme concreto perché richiede la capacità di prefigurare un mondo diverso nelle sue diverse e concrete articolazioni, quasi una nuova cosmogonia. Per fortuna noi femministe questo mondo in realtà ce l’abbiamo già dentro e l’abbiamo iniziato a prefigurare già nella ricchezza rivoluzionaria di riflessioni e proposte che da tempo ci scambiamo e che ci unisce. C’è una lunga storia di ecofemminismo che questo scenario ha largamente anticipato in particolare negli scritti di alcune grandi studiose come Carolyn Merchant, Rachel Carson, Vandana Shiva, Laura Conti…
È anche questo che diciamo quando parliamo di Cura come principio ordinatore di una nuova economia, di una nuova ecologia, di una nuova visione del mondo.
“Occorrerebbe per prima cosa che il concetto di cura uscisse dalla dimensione familistica e personale: la compassione e la cura sono state femminilizzate e svalutate “ ha scritto Alicia Puleo. E come dice Stefania Barca “la crisi ecologica è radicata nelle profonde disuguaglianze sociali e globali generate dal modello capitalista, coloniale e patriarcale. Questo principio base consente oggi – forse per la prima volta in decenni – di pensare un femminismo che sia davvero la chiave di volta di un cambiamento radicale”.
Certamente mai come oggi si è oggettivamente imposta la necessità e l’urgenza di quel cambiamento che le donne incarnano nei loro stessi corpi, volta a volta sfruttati, ignorati, mercificati, violati da un sistema che non le riconosce come soggetti e protagoniste a pieno titolo di una nuova storia da costruire.
Paradossalmente, come è stato detto da molte, proprio la pandemia ha svelato l’essenzialità, l’irrinunciabilità dei corpi e della presenza delle donne in ogni anfratto della vita sociale e familiare e nel caregiving, rompendo l’invisibilità del lavoro riproduttivo che come un mantello stregato ne ha occultato da sempre l’importanza centrale nella costruzione sociale, scompaginando stereotipi e falsi scenari non più sostenibili.
Si devono quindi cambiare alla radice tutte le scelte che riguardano l’economia, l’ambiente, il lavoro, la sanità, la giustizia. Dobbiamo smettere di finanziare armi e guerre, la vera industria della morte, e dobbiamo cambiare paradigma simbolicamente e concretamente, spostando la maggior parte delle risorse economiche sulle attività di cura che persone invisibili e sfruttate, in maggioranza donne, svolgono ogni giorno per sostenere il necessario riprodursi della vita.
Quello che si sta decidendo però sembra andare purtroppo nel senso opposto. Non soltanto nel PNRR si destinano risorse minime a tutte le politiche di genere, ma continua il ricorso alle fonti fossili, si progettano altre trivellazioni, permane l’uso dei pesticidi e degli allevamenti intensivi, aumenta il consumo di suolo, sono allo studio nuove grandi opere, crescono diseguaglianze che privilegiano il Nord a scapito del Sud. Come se non bastasse, si riparla di nucleare, si potenzia l’industria delle armi con nuove spese e nuovi terribili strumenti di morte.
Si continua poi nella feroce ingiustizia di negare l’asilo a chi fugge da violenze e guerre, persino se proviene da paesi come l’Afghanistan, tacendo sulle tremende violenze che le persone migranti subiscono ai vari confini, in particolare sulla rotta balcanica che giunge fino a noi, e nel Mediterraneo trasformato da Mare Nostrum, fertile culla di scambi, in tomba di persone disperate che cercavano asilo fuggendo dalla devastazione dell’Africa, depredata dal famelico colonialismo occidentale. Si rifiuta la cittadinanza a chi ne ha pieno diritto vivendo qui dalla nascita o dalla prima infanzia.
Il cosiddetto illusorio capitalismo benevolo difficilmente si convertirà a scelte di questo tipo, e infatti la potenza delle lobby sta già neutralizzando a livello europeo tutti i buoni propositi. Come scrive la LIPU “Il carattere del Recovery Plan italiano è ancora antropocentrico, ispirato alla crescita infinita, alle grandi opere: più gas, più infrastrutture, più trivellazioni, più consumo di suolo”. Produrre sempre di più invece che rigenerare sempre di più.
Inoltre la continua enfasi sull’immunizzazione e sui vaccini, ovviamente comprensibile e necessaria da un certo punto di vista, sta silenziando il ragionamento sulle cause strutturali che hanno prodotto la pandemia, il modello di sviluppo fondato sullo sfruttamento selvaggio delle risorse che distrugge i fondamenti della vita. Nel progetto femminista di trasformazione dell’esistente il rispetto dell’ambiente e della vita in ogni sua forma rappresenta invece la necessaria premessa di ogni cambiamento.
A questo punto della storia solo negli sguardi femministi divergenti rispetto alla “normalità” si possono trovare gli anticorpi per decostruire e ricostruire su basi radicalmente differenti i pilastri su cui si sono edificate le nostre vite e le nostre società.
La “Cura” rispetto alla “normalità” potrebbe dunque essere la prima galassia di significati su cui lavorare trasversalmente, cercando di leggerne con occhi nuovi le ricadute a partire dalle nostre vite. Ci vorrà molto tempo? Forse sì, ma da qualche parte bisogna cominciare.
Ecco perché ora è necessario costruire reti sempre più ampie, connetterci e stare in relazione per imporre con forza una vera “Agenda delle donne” per la vita delle persone e del pianeta, come suggerisce Vandana Shiva che, per quanto mi riguarda, porrei a capo di un governo simbolico del pianeta. Da sempre lei denuncia, svela, e propone, è una scienziata, sa di cosa parla, argomenta perfettamente, e la sua Democrazia della terra è proprio quello di cui noi femministe abbiamo bisogno.