di Floriana Lipparini.
“Sul pianeta O non scoppia una guerra da cinquemila anni, lesse, e Gethen non ha mai conosciuto guerre. Interruppe la lettura, per far riposare gli occhi e anche perché stava cercando di abituarsi a leggere lentamente, a non divorare le frasi a bocconi interi come Tikuli ingurgitava il cibo. Non ha mai conosciuto guerre: nella sua mente quelle parole si stagliavano chiare e distinte, circondate da un alone di incredulità infinita, oscura e soffice in cui poi affondavano. Ma che mondo può essere, quello senza guerre? Sarebbe un mondo vero. La pace era la vita vera, una vita di lavoro e sapere ed educazione dei figli al lavoro e al sapere. La guerra, che divorava lavoro, sapere e figli, era la negazione della realtà”.
Questo è l’incipit del Giorno del perdono – Tradimenti, una delle straordinarie opere di Ursula K. Le Guin, incommensurabile creatrice di mondi passati o futuri in cui l’apparente “alienità” ci parla delle nostre più profonde pulsioni e contraddizioni. La guerra è una di queste, forse la più tragica ma non invincibile, almeno in qualche caso, su alcuni di quei pianeti immaginari come nel caso di O. Invece su questo pianeta molto concreto in cui viviamo noi, passano i secoli e i millenni e da questo punto di vista nulla sembra evolvere. Anzi, senza pudore né vergogna si cancellano i pur modesti progressi faticosamente conquistati nell’illusione di essere una specie intelligente.
La guerra scatenata dall’aggressione russa all’Ucraina lo dimostra. Svanite da un giorno all’altro le convenzioni per la pace e le norme internazionali che invocavano soluzioni diplomatiche, perse nella nebbia le istituzioni dell’Onu delegate a interporsi nei teatri di guerra, le grandi potenze e i loro “clientes” (in Europa quasi tutti) parlano solo il brutale, primitivo, ancestrale linguaggio delle armi. D’altro canto da quasi un secolo il mondo accetta l’odiosa violazione del diritto del popolo palestinese all’esistenza, nonostante chilometri di risoluzioni Onu e nonostante l’evidente pulizia etnica cui è sottoposto e inenarrabili crudeltà, come la spietata uccisione della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh. Se questo è possibile, allora tutto è possibile, sembra l’amara lezione.
La guerra ucraina nella sua orrenda brutalità nasce e vive nel cuore del patriarcato e dei suoi valori, se così si possono chiamare. Il dominio sulle risorse, il possesso delle terre, la primazia nella produzione di armi e i conseguenti profitti, questi i moventi che spingono l’aggressore a fare strage di vite, riproducendo all’infinito quel meccanismo distruttivo e autodistruttivo su cui si fonda il sistema capitalista e neoliberista. E gli aggrediti per difendersi non possono che contrattaccare disperatamente con eguali strumenti di morte, in una spirale senza fine.
Toccherebbe evidentemente agli altri, i “non direttamente aggrediti”, cercare strade diplomatiche per ottenere il cessate il fuoco. Gli aggrediti non riescono a farlo. Dovrebbero i non direttamente aggrediti mettere in campo ogni mezzo per fermare il massacro. Aprire mille tavoli di mediazione. Coinvolgere ogni soggetto influente. Cercare il possibile e l’impossibile. Ma no, sia Usa sia Europa hanno lavorato al contrario. Hanno forse illuso gli ucraini che potevano vincere, li hanno aizzati a combattere al di là delle loro forze, hanno ignorato il numero crescente di vittime.
Vogliono l’eroismo. A parole, naturalmente, perché a combattere non sono loro, e comunque non è il loro vero obiettivo. Ma eroismo è la vittoria militare sul campo inondato di sangue o invece la capacità di indurre i contendenti al ragionamento ponendosi su un terreno antinazionalista, a favore della cooperazione fra popoli differenti e rispettosi delle reciproche minoranze, dei loro diritti?
Non sembra questa l’opzione alle viste. Dobbiamo pensare che tutto sia ancora fermo ai popoli dei metalli e delle armi, quei Kurgan che arrivando a cavallo dalle steppe sconfissero le società agricole e gilaniche che stavano, ironia della sorte, proprio in Ucraina (Marija Gimbutas docet)? Dobbiamo forse aspettare la discesa di specie aliene per interrompere questo ciclo maledetto? E se non fossero poi come quelle immaginate da K. Le Guin?
L’escalation guerresca cui stiamo assistendo sgomente non fa solo strage di innocenti. Lo stile di vita energivoro e globalizzato che ormai caratterizza quasi ogni luogo della Terra si rivela drammaticamente fragile e vulnerabile, visto che le conseguenze del conflitto mettono a rischio anche le forniture di grano, l’acqua, le risorse energetiche e insomma tutto ciò su cui si regge la nostra quotidiana sopravvivenza. Si profila lo spettro di una carestia assassina che colpirà soprattutto le fasce povere della popolazione, in ogni luogo del mondo. Dissolta in un baleno la superficiale solidarietà internazionale che la pandemia sembrava aver suscitato, evidentemente per effetto della paura, le lancette del tempo si sono messe a correre precipitosamente all’indietro.
Di transizione ecologica non si sente più parlare, a Bruxelles le misure contro l’estrattivismo vengono rimandate fino a svanire in un incerto futuro, la difesa della biodiversità è finita nel libro dei sogni, ridotti al minimo i fondi per l’equità sociale, mentre aumentano a dismisura le spese per le armi. Un mondo sempre più povero ai piani bassi, ma sempre più militarizzato. La Nato in primo piano decide sulle nostre sorti espandendosi ovunque. Esplicite minacce di ricorso al nucleare. Un’economia di guerra in cui i diritti rischiano di ridiventare un lusso per pochi. Ora l’incredibile sentenza contro il diritto all’aborto negli Usa. Lo scenario verso cui ci stanno spingendo con l’irresponsabile chiamata alle armi, sempre più armi, è questo. Si direbbe, alla fine, il famoso backlash, la vendetta del patriarcato. Guerra totale a una vita “di lavoro, sapere, educazione dei figli”. A un mondo senza guerre.
Nei libri di Ursula K. Le Guin spesso i mondi sono zone tenebrose, dove la violenza è sempre in agguato. Insomma, non si tratta di rosee utopie. In quei mondi, accanto alle complesse e contraddittorie figure di uomini in cerca di verità e di luce, ci sono donne che pensano in un altro modo, vivono in un altro modo, governano il mondo in un altro modo. E non fanno la guerra. Non per ovvie differenze biologiche, ma per una saggezza maturata nel corso della storia e per la loro quotidiana vicinanza con la sostanza di cui è fatta la vita di tutti, uomini o donne che siano.
La possiamo chiamare Cura nel senso pieno e alto del termine. La capacità di riprodurre l’esistenza non come una terra di continua conquista ma come la capacità di assicurare il futuro comune conservando nel famoso sacchetto delle storie, di cui parla sempre Le Guin, tutte le basi materiali e sociali della vita. Difatti secondo Le Guin il primo attrezzo utile inventato dai Sapiens non fu un’arma ma un contenitore per portare a casa ciò che si raccoglie, erbe, semi e frutti selvatici. In pratica la borsa della spesa che la guerra ci sta per svuotare.
Forse dovremo ricominciare da capo.