Uno sguardo di genere nell’urbanistica: intervista all’architetta Azzurra Muzzonigro
Abbiamo incontrato Azzurra Muzzonigro, l’architetta e ricercatrice che insieme a Florencia Andreola cura il progetto di ricerca Sex & the City per Urban Center del Comune di Milano e Triennale Milano, ricerca dalla quale è nato il “Milan Gender Atlas”.
Questo atlante è tante cose insieme: una guida ai luoghi che accolgono non solo le donne, ma anche le minoranze e altre persone che incontriamo osservando da vicino la vita delle donne, una raccolta di dati che descrive il modo in cui le donne vivono la città di Milano e uno strumento per progettare lo spazio in modo più inclusivo.
Tra i luoghi mappati c’è anche la Casa delle Donne e le autrici hanno intervistato Floriana Lipparini, Filomena Rosiello e Anita Sonego per raccontare la storia della Casa, i suoi valori e i progetti per lo spazio urbano, in particolare quello del gruppo Città bene comune.
Ho fatto ad Azzurra un po’ di domande a proposito di urbanistica femminista.
La pianificazione urbana è stata a lungo una professione bianca esercitata dagli uomini. A cos’ha portato questa realtà. È cambiato qualcosa?
È parte integrante del paradigma che cerchiamo di smontare, da architette lo facciamo con gli strumenti dell’urbanistica, poi ciascuna lo fa con gli strumenti che ha.
Le città sono state pianificate dagli uomini mettendo al centro una soggettività che ha una pretesa neutralità: il soggetto dello standard urbanistico è neutro, ma è una neutralità che implica dei connotati, ossia essere perlopiù maschio, eterosessuale, cis, abile e libero da lavori di cura, e quindi la città che questo soggetto pianifica di fatto risponde alle sue esigenze.
Portare uno sguardo di genere e, se vogliamo, uno sguardo femminista all’interno della pianificazione urbana significa allargare lo sguardo a tutte quelle soggettività che storicamente sono stata omesse dalla pianificazione delle città, modernista e funzionalista. Pensiamo alla città funzionalista d’inizio Novecento, quindi Le Corbusier, con quei piani mastodontici che mettevano al centro le funzioni e quel tipo di soggetto.
Osservare la vita quotidiana delle donne, per il lavoro di cura che svolgono, permette di intercettare altre categorie in maniera intersezionale, cioè persone di altre etnie, età, genere, classe sociale, dato che il 75% del lavoro di cura, pagato o non pagato, è sulle spalle delle donne, non che debba restare così ma è un dato di fatto; inoltre intercettare le donne significa anche intercettare i bambini, gli anziani, i disabili e tutta una serie di categorie che storicamente sono state lasciate ai margini della pianificazione.
Noti uno sguardo più intersezionale nell’ambito dell’urbanistica o c’è ancora fatica ad aprire gli occhi sulle minoranze o sulla condizione delle donne, che non sono una minoranza?
Penso che sia un processo: in altre parti del mondo questo sguardo è praticato da più tempo, qui in Italia è la discussione è acerba e di conseguenza anche la pianificazione. Non che non ci siano state forti prese di posizione, ma è proprio la ricaduta sulla pianificazione che manca; cerchiamo di spingere molto sulla connessione tra quello che dice la teoria degli studi di genere e gli strumenti di pianificazione, perché è importante chi fa cosa e dove, al riguardo.
Alla luce della vostra ricerca, Milano è una città inclusiva rispetto alle altre città europee? Secondo te quali sono le priorità?
Partiamo dai dati. A Milano le donne sono molto più occupate che in altre città e questo cambia molto il quadro, perché se una donna è autonoma economicamente è meno soggetta a violenze; sarebbe bello fare degli studi in altre città per vedere le differenze, probabilmente non avremmo gli stessi risultati. In Europa ci sono dei casi virtuosi, prima fra tutte Vienna, che dagli anni ’90 osserva la vita delle donne e delle minoranze di genere e a chiede alle ragazze come piace attraversare gli spazi e questa ricerca ha informato l’azione dell’amministrazione; il cosiddetto gender mainstreaming vuol dire includere lo sguardo di genere nell’azione amministrativa. Dunque sono 30 anni che a Vienna si ha quest’approccio e sono stati costruiti interi quartieri della città con queste considerazioni; visto che la mobilità delle donne in quanto caregiver è di tipo pedonale, locale, si è pianificata la città in modo da privilegiare quel tipo di mobilità: questo ha fatto di Vienna la capitale europea del gender mainstreaming.
La città di Barcellona, allo stesso modo, pone molta attenzione alla questione, soprattutto da quando Ada Colau è a capo della città, e ha espresso con forza questi temi nella macchina amministrativa: c’è una Direzione di Gender Mainstreaming che risponde a lei dalla quale tutte le politiche pubbliche devono passare.
Anche in Svezia la città di Umea si sta impegnando in tal senso. Esiste inoltre una rete europea di città che lavorano su questo approccio, la Gender Equal Cities, un orizzonte importante perché stanno caldeggiando la candidatura della città di Milano all’interno di questo network, che pone al centro uno scambio di buone pratiche, si impara dalle esperienze delle altre città.
Quanto ha giocato la solidarietà fra donne nell’affrontare uno spazio ostile come può essere la città, secondo te?
I temi della solidarietà fra donne e delle alleanze sono nodali nel pensiero femminista. Da architetta e urbanista a me interessa come questa solidarietà diventi spazio: che genere di spazi possiamo pianificare che agevolino questo tipo di scambio?
Per esempio nell’Atlante abbiamo mappato esperienze informali come l’asilo nido Soprasotto, penso a Isola Pepeverde o Ri-make, che sono dei luoghi che hanno alla base un concetto di cura condivisa, autogestita perlopiù: rispondono a esigenze inevase. Lì ci sono energie importanti che vanno valorizzate: questo è un messaggio da trasmettere alle amministrazioni, che spesso non hanno gli strumenti per includere questo tipo di esperienze nell’azione amministrativa. Vanno costruiti questi strumenti.
Penso anche alle esperienze di cohousing femministi, in cui ritorna il tema della cura condivisa: le nostre case sono costruite in maniera da isolare i nuclei familiari e quindi se hai un figlio sono fatti tuoi e della tua famiglia e quindi della madre, mentre nelle forme più collettive di abitare si potrebbe dare spazio a una cura condivisa dei bambini, ad esempio, dei piani terra o tetti che diventino spazi comuni, ci sono tante esperienze che vanno osservate, applicate e messe a sistema.
Avete presentato l’“Atlante” in moltissime occasioni, che riscontro avete avuto? State già pensando alla prossima iniziativa?
Quello che mi piace di più di questa ricerca è la sua trasversalità: questo ci ha permesso di entrare in contatto con le persone più diverse, dai collettivi di adolescenti transfemministi che si interrogano si questi temi e che trovano uno spazio di scambio importante fra loro, fino alle amministrazioni pubbliche, sia a Milano che in altre città, con cui cerchiamo di concretizzare dei progetti.
A Milano la ricerca è stata ultimata ed è il tempo di concretizzare, se vogliamo ripetere nelle altre città questo tipo di studio, i dati sarebbero diversi e dunque anche i quadri sarebbero diversi.
La Comunità Europea è un altro orizzonte e poi stiamo dialogando con la CGIL, che chiede come introdurre lo sguardo di genere nella contrattazione sindacale e molto altro. Credo che questo interesse derivi dal fatto che è un tipo di sguardo che pone l’attenzione sulla vita quotidiana delle persone, su chiunque, dunque non si tratta di creare la città delle donne, ma di mettere al centro la cura e della cura dovremmo occuparci tutti.
Intervista a cura di Lorena Bruno