Intervista a Giorgia Serughetti di Grazia Longoni.
A quasi un mese dalle elezioni vinte il 25 settembre, Giorgia Meloni è la premier di un governo di destra non ancora insediato. Ma già in queste settimane qualcosa è successo. Meloni ha scelto un basso profilo pubblico. Ha apparentemente evitato le liturgie delle trattative e dei compromessi, mettendo in riga i suoi ingombranti alleati maschi e le loro pretese. E quando è stata duramente attaccata da Berlusconi, ha detto una frase chiara: “io non sono ricattabile”. Una dura, insomma. L’estate scorsa un’accesa discussione aveva diviso le femministe tra chi sosteneva che “una donna al potere non significa di per sé una vittoria delle donne” e chi si aspettava “una novità” dalla prima premier donna della storia.
È arrivata, questa novità? Lo abbiamo chiesto a Giorgia Serughetti, filosofa politica, docente alla Bicocca, giovane e brillante autrice femminista.
“Certo che c’è una novità. Ed è quasi irresistibile la tentazione di compiacersi, di provare simpatia, da femministe, vedendo una donna capace di tenere salda la sua leadership, in un mondo tutto maschile dove tutte e tre le forze politiche del suo governo seguono, sia pure in modi diversi, una logica patriarcale. È una novità importante anche per chi, come me, è molto critica sull’equivalenza tra donne al potere e successo femminista”.
Non è un successo per tutte che una ce l’abbia fatta?
“Parliamo di rappresentanza femminile. Dobbiamo distinguere una rappresentanza descrittiva, il dato in sé positivo di più donne in posizione di potere, da una rappresentanza sostanziale, che non solo rispecchia una presenza ma agisce per le donne. Meloni è stata votata al 50% da donne e rappresenta gli interessi di una parte delle donne. Che non vogliono libertà e rottura dei modelli tradizionali di famiglia e ruoli femminili, ma si affidano a uno scambio – che ho definito osceno – tra libertà e protezione. In altre parole, in cambio di una maggiore protezione – dei confini, dal crimine, anche sociale con un maggiore sostegno alla maternità – sono disposte ad accettare una riduzione della loro libertà di scelta”.
Si può contemporaneamente spingere il protagonismo delle donne e minacciare i loro diritti, le loro conquiste?
“Certo, e non è la prima volta che questo succede. Ma mi chiederei anzitutto da dove viene la sua forza. Lei si oppone alle famose ‘quote’ che considera una misura paternalistica, di promozione delle donne, e afferma al contrario il valore della competizione personale”.
Quella che l’ha portata al successo per merito suo, per la sua capacità di farsi valere.
“Lei dice questo. Ma è falso. Se non ci fosse stato un protagonismo delle donne in campo sociale e politico non ci sarebbe stata nessuna Giorgia Meloni! La logica del merito personale – che naturalmente esiste – non basta. Addirittura, nell’interpretazione che ne dà la destra, l’esaltazione del merito rimuove e vuole cancellare la storia delle donne, che è il fondamentale retroterra del successo di alcune di loro”.
Ma la sua battaglia non può essere un modello di forza applicabile, con diversi valori, anche a sinistra?
“Rischiamo di esserne affascinate. Ma è un modello individualista. Quando Meloni parla di donne che l’hanno sostenuta, parla delle donne della sua famiglia, non mostra mai un legame politico con altre donne. Quel tipo di leadership non fa avanzare le altre donne, non promuove nessun empowerment collettivo. Non dobbiamo cadere in questa trappola. Se no ci resta solo l’alternativa di una Meloni di sinistra. E non ci serve”.
In un recente intervento nel dibattito avviato dal quotidiano Repubblica, Daniela Hamaui sostiene che il potere non viene mai regalato e che bisogna mostrare di combattere per ottenerlo. Per questo chiede alla donne del Pd dov’erano quando sono state composte le liste elettorali e perché non hanno aperto un conflitto su questo…
“Non era facile, il conflitto nel Pd esiste ma non esplode, non produce cambiamento. Le donne spesso sono obbedienti, avrebbero forza ma non la esercitano e rispondono, come gli uomini del resto, più a posizioni di corrente che alla propria identità di donne. E non c’è nessuna corrente del Pd guidata da una donna”.
Sempre su Repubblica, Natalia Aspesi scrive che i partiti di sinistra danno voce e spazio alle donne, ma mai potere. E che le signore ne sono contentissime…
“Non credo che le donne non vogliano il potere, anche quelle di sinistra non sono certo appagate da un ruolo ancillare, però sono inefficaci”.
Ma noi femministe vorremmo un protagonismo femminile e femminista nei partiti?
“Molte femministe dei movimenti, come Non Una Di Meno, direbbero che non abbiamo bisogno dei partiti per fare politica, e si collocano su un binario divergente rispetto al palazzo. Sull’aborto, sugli anticoncezionali, l’attivismo di piazza ha contestato per esempio Laura Boldrini. Alcune ragazze hanno accusato lei e le donne di sinistra di essersi imborghesite, di non ascoltarle. Questo è un conflitto vitale, importante. Ma io sono tra coloro che credono che i partiti siano attori fondamentali di una democrazia che non scivola verso populismo e totalitarismo”.
Michela Marzano, intervenuta nello stesso dibattito, si dice stufa della retorica sulla necessità che le donne conquistino il potere per diventare libere, cita un ‘cambiamento senza prendere il potere’. E scrive che il potere è l’antitesi della libertà.
“Su questo non sono d’accordo con Marzano. Che cosa intende per potere, il dominio? Il potere non è solo questo. A me interessa il potere come poter fare, capacità di azione collettiva, di una politica trasformativa. Il potere è anche responsabilità. Dobbiamo ragionare su come costruire strutture adeguate che consentano di non ricorrere solo alla competizione individuale. Se no basterebbe imbarcare le più capaci. Ma questo non fa fare passi avanti per tutte le donne”.
Foto di copertina @Bruna Orlandi
Foto Giorgia Serughetti @ su gentile concessione