L’11 novembre si è tenuta al Giardino dei Ciliegi di Firenze l’Assemblea femminista “Libere di vivere, libere di scegliere”, nell’ambito del Forum Sociale Europeo 2022. Un appuntamento che si è rivelato molto significativo, come bene hanno spiegato Alessandra Mecozzi e Nicoletta Pirotta (https://transform-italia.it/libere-di-vivere-libere-di-scegliere/):
“Il Giardino dei Ciliegi, un luogo storico per il femminismo italiano e non solo, ha ospitato l’11 novembre iniziative femministe molto partecipate, nel quadro del ventennale del Forum Sociale Europeo tenutosi nel 2002 a Firenze. Con il Giardino hanno lavorato il gruppo FEMM della Società della Cura e Libere Tutte, in collaborazione con COSPE.
Viviamo in tempi difficili, dove si intrecciano dubbi e paure, in uno scenario internazionale minaccioso. Non davamo per scontata la partecipazione di tante donne. E invece la sala si è riempita e ha con attenzione e partecipazione seguito tutti gli interventi, che ci hanno dato emozioni e occasioni di conoscenza, sostituendo alle iniziali preoccupazioni la soddisfazione.
Il femminismo, ancora una volta, si è rivelato capace di uno sguardo e di una visione del mondo, per tutta l’umanità, viva e non rassegnata. Nelle prima delle due sessioni si è parlato di ‘Resistenze a guerre occupazioni regimi. Il coraggio delle donne’. In apertura, grazie a Raffaella Chiodo, giornalista femminista impegnata nel campo della solidarietà e cooperazione internazionale e osservatrice nei processi di pace e democratizzazione ed elettorali in diverse parti del mondo, abbiamo ascoltato le voci registrate, hanno chiesto di non essere mostrate per motivi di sicurezza, di due donne ucraine e di una russa. Voci emozionanti, che evocano il sogno di un futuro senza guerra.
Con dolore e rabbia per le tante vittime, nelle parole delle ucraine, con la speranza alimentata dai giovani che si oppongono alla guerra nelle parole della russa. E poi le giovani donne di Afghanistan, Iraq, Libia, Palestina, Kurdistan, Siria che hanno sperimentato, e sperimentano, guerre, regimi, occupazione che provocano i drammatici effetti delle migrazioni. Ma tutte, con il grande coraggio di non rassegnarsi.
Nella seconda sessione su ‘Il prezzo di guerre e armi. Le lotte per i diritti – Il valore del lavoro, ambiente/clima, salute riproduttiva, razzismo, sessismo, omofobia e transfobia, migrazioni, violenza contro le donne’ gli interventi, europei ed italiani, hanno squadernato gli aspetti di regressione politica e culturale sui diritti, del lavoro, sociali e civili.
Da Grecia, Spagna e Germania, è stato ripreso il tema della guerra e del bellicismo dei media che annulla le donne (Spagna), la denuncia del militarismo estremo (Germania) e il dramma delle migrazioni (Grecia). Mentre gli interventi italiani hanno riguardato il lavoro, l’ambiente, l’intreccio fra razzismo ed il sessismo, l’avanzata delle destre ed i rischi per il diritto delle donne all’autodeterminazione, in particolare sulla salute riproduttiva.”
Qui di seguito l’intervento introduttivo alla prima sessione.
Nella mente patriarcale le radici della guerra
Ormai da molti mesi infuria la guerra in Ucraina, nel cuore dell’Europa. Come sempre non sono le popolazioni ad avere deciso tutto questo, ma autocrati e leader di potenze probabilmente in declino che vogliono cambiare gli equilibri mondiali. Sembra che abbiano cinicamente deciso di usare l’Europa come teatro dei loro scontri per il dominio e la supremazia.
Si affaccia il fantasma delle carestie per mancanza di pane, riemerso improvvisamente dalla storia letta sui libri di scuola. Si risveglia l’incubo nucleare e lo spettro di una terza guerra mondiale. E l’Italia con l’invio di armi a questa guerra sta partecipando, anche se non è stato ufficialmente detto, anche se non si svolge fisicamente sul nostro territorio. Non in nostro nome, diciamo una volta di più. Rifiutiamo l’idea stessa della guerra, come del resto ognuna e ognuno dovrebbe fare secondo l’art. 11 della nostra Costituzione, e secondo la Carta delle Nazioni Unite. La guerra non è la soluzione dei conflitti, e per farla uscire dalla storia è finalmente necessario smascherare culturalmente il profondo, radicato e arcaico nesso fra guerra, nazionalismo e patriarcato.
Che fare per interrompere subito, adesso, questa follia? Si può realmente fermare la guerra una volta che sia iniziata? “Quando le fiamme divampano è troppo tardi”, disse Bertha von Suttner nel 1908, grande donna Premio Nobel per la Pace cui si deve il romanzo Abbasso le armi.
È vero, quando le armi iniziano a sparare è già molto tardi. La guerra si può forse scongiurare prima, quando i segnali dicono che tutto sta per precipitare, ma che fare quando una comunità viene invasa e aggredita? Gli ultimi eventi dimostrano che a nulla valgono i richiami al rispetto delle leggi internazionali, dei principi universali e delle carte dei diritti. Perché non è stato attivato il grande terreno della diplomazia alternativa, il diritto della società civile a farsi sentire e a pesare sulle decisioni delle leadership e degli organismi internazionali?
Cosa ne è stato di questi strumenti non violenti, dov’è finita quella forza di interposizione Onu che dovrebbe attivarsi proprio in casi come questi, per evitare un’escalation senza fine di stragi e massacri. E perché l’Europa non ha preso alcuna iniziativa in tal senso, al contrario stigmatizzando con ostilità le voci di pace contrarie alle armi che hanno chiesto di dar vita a negoziati e a tutte le mediazioni possibili? L’esistenza dell’Europa come garante di diritti in tal caso avrebbe preso significato, invece di scomparire dalla scena mondiale.
Proprio quando la pandemia ci ha reso chiaro che per salvare il pianeta dal disastro climatico e da nuove sciagure occorre mettere insieme le forze per uno scopo comune, la guerra invece impone di tornare alla cortina di ferro e alle sfere di influenza che sembravano appartenere al passato. Ai potenti della terra non è bastata la drammatica esperienza del Covid, non hanno capito la necessità di cambiare strada rispetto ai disastri planetari prodotti dal modello di sviluppo illimitato e predatore che il sistema patriarcal/liberista ha imposto al mondo, un sistema che per sopravvivere ha continuamente bisogno di guerre da cui trarre infiniti profitti con la produzione e il commercio di armi sempre più sofisticate e letali.
Ma quando una guerra scoppia l’unica verità è data dalle macerie, dai corpi, dal sangue, dal numero delle vittime. Come nelle guerre del passato e di ogni tempo. E ci spaventa la pazza idea di chi vuole alzare il livello di distruzione e di morti inondando il campo di armi. Così non si ferma la guerra, ma si alimenta una spirale che finirà solo quando la ferocia del più forte avrà raggiunto lo scopo di annientare l’altro, a prezzo di spaventosi massacri. Non si può chiamare pace.
L’ombra cupa del conflitto in Ucraina si estende ben oltre la sua dimensione geografica: la guerra non uccide solo le persone, inquina l’aria e le acque, i fiumi, le coltivazioni, stermina biodiversità e piccoli animali, produce emissioni nocive che rimarranno fra noi per non si sa quanto tempo. Dunque questa guerra ci riguarda e sta cambiando lo scenario del futuro.
Dovremmo però parlare non di una guerra ma di molte guerre, al plurale, più o meno cruente. C’è violenza, c’è guerra in Afghanistan, in Iraq, in Yemen, in Libia, in Siria, in Palestina, in tantissimi luoghi dove le cosiddette “coalizioni dei volonterosi” sono passate per “portare la pace” e hanno lasciato l’inferno. Ed è una feroce guerra quella contro le donne, contro le loro libertà e i loro corpi, l’orribile massacro delle nostre sorelle in Iran e gli abusi in Afghanistan.
Tutto questo in effetti si tiene insieme perché è collegato da una radice intimamente legata al seme patriarcale della storia, alla volontà egemonica di dominio sui territori, sulle popolazioni e prima ancora sui corpi delle donne, che si esprime al suo apice appunto nella violenza della guerra. Ed è una guerra ferocissima anche quella contro i migranti, non si contano più le persone annegate nel tentativo di arrivare in Europa in cerca di asilo sulle rotte della morte, quella del Mediterraneo verso le nostre coste, ma anche la rotta balcanica e la ruta canaria.
Se vogliamo sperare di cancellare finalmente un giorno la guerra dalla storia, dobbiamo riuscire a costruire una profonda rivoluzione culturale cambiando prima di tutto l’immaginario che la circonda, strutturalmente inciso nella mente patriarcale. Costruire un’altra narrazione, un altro immaginario, un’altra visione del mondo perché non ci appartengono i linguaggi militareschi, la resa, la vittoria, gli eroi, l’ideologia della patria che trasmette il senso del possesso di un territorio. La stessa concezione proprietaria che porta a credere che la specie umana sia padrona del pianeta e possa farne l’uso dissennato che ci ha portato al disastro. Altra cosa è l’amore per il territorio in cui si nasce o in cui ci si trova a vivere, arrivando magari da terre lontane. Un amore che non vuole chiudere le porte e tracciare confini, ma solo rispettare la comune convivenza e le risorse naturali come beni comuni.
I miti sull’identità, sul concetto di patria e di nazione, sui confini vecchi e nuovi sono i terreni su cui si costruisce la chiamata alle armi per mimetizzare le ragioni ben più materiali che muovono le guerre, come lo sfruttamento delle risorse e i profitti di ogni genere. Ecco perché da un punto di vista femminista è importante andare alla radice delle guerre per decostruirne le premesse, contrastare nazionalismi e razzismi di cui le guerre si nutrono. La capacità di aprire e attraversare pacificamente i confini, la capacità di convivenza fra differenze è proprio quella diversa strada, quella diversa politica e quel diverso stare al mondo su cui molte femministe ragionano con la speranza di farne una scelta accettata e universalmente condivisa.
Se parliamo di premesse dobbiamo anche dire che la tragedia della guerra in Ucraina ha origini lontane. In quelle terre vivono persone miste, le appartenenze e le lingue sono quasi indistinguibili, esistono memorie storiche e relazioni secolari. Perché non accettare l’idea di una convivenza plurale? Perché non evitare di identificarsi etnicamente, o dirsi tranquillamente duplici, come faceva il grande Alex Langer nel suo Tyrol? L’imposizione di rigidi confini e identità, o per meglio dire la politica dei confini chiusi, è un sistema gravido di ingiustizie e potenziali violenze. La storia delle genti che abitano nelle zone di confine è sempre una storia di intrecci, parentele, mescolanze e scambi. Ciascuno parla anche la lingua dell’altro, ciascuno entra continuamente in relazione con l’altro. Sono i vertici, lontani dal sentire comune popolare, a decidere le chiusure, le divisioni, le identità forzate. E qui sta anche il seme delle guerre.
Occorre disidentificarci radicalmente dalle mitologie dicotomiche, nazionaliste e razziste costruite dalla mente patriarcale, inventando nuove forme di società non gerarchiche capaci di includere al proprio interno le mille sfumature culturali ed etniche che la storia ha creato senza bisogno di distinguere con nomenclature, etichette, confini e bandiere. Occorre immaginare nuove e inedite modalità di convivenza, con un coraggioso salto nel futuro e nell’utopia. I confini uccidono, se non s’impara a viverli come zone fluide di incontro fra esseri umani titolari di diritti oltre che di interessi, primo fra tutti quello alla vita. Insomma, il contrario della guerra. Come dice la filosofa croata Rada Ivekovic, pensare l’impensabile. Questo può essere un campo di lavoro per il mondo femminista.
Occorre dire però che la guerra sta prendendo nuove forme persino più insidiose, avanza la cosiddetta cyberguerra (come dice il CyberPeace Institute di Ginevra) che può colpire ovunque le strutture vitali di interi paesi infischiandosene dei confini materiali. Questa nuova frontiera della violenza creata pur sempre dalla mente patriarcale all’acme dell’hubris tecnologica va quanto prima capita e contrastata, occorre occuparsene, perché altrimenti non ci saranno più limiti al disumano.
Chiudo citando una cosa detta dalla grande scrittrice Ursula K. Le Guin: smentendo l’antropologia classica di stampo maschile (la maggior parte degli antropologi sono maschi), lei sostiene che il primo attrezzo costruito dai Sapiens non fosse un’arma ma un contenitore per trasportare ciò che si riusciva a raccogliere, erbe, frutti, mille cose diverse. Insomma, la borsa della spesa. Ottima metafora, non per la guerra ma per la cura della vita.
Floriana Lipparini