di Keum Suk Gendry-Kim
(Bao Publishing, 2019)

Intanto la grafica. Il libro è grosso e pesante e interamente in bianco e nero.

Il tratto talvolta è essenziale, soprattutto quello che la disegnatrice usa per descrivere sé stessa, il presente o nel passato gli ambienti quotidiani, ma diventa pittorico e ispirato alle chine tradizionali cinesi nei paesaggi, sempre freddi, aridi e inospitali, o nel descrivere i volti e gli orrori vissuti dalla protagonista del romanzo, che si erge a simbolo di tutte le “confort-women” coreane: Donne strappate a forza dal loro paese per diventare schiave sessuali dell’esercito giapponese durante la guerra di occupazione in Cina. E quindi queste pennellate violente che descrivono l’erba spazzata dal vento gelido, erba che si piega, soffre ma tiene duro, come hanno fatto le migliaia di donne intrappolate in questa tragedia, non troppo studiata e riconosciuta dalle nostre parti e tantomeno in Giappone, dove si fa ancora più fatica che da noi a fare i conti con la storia e il passato di aguzzini e torturatori dei nostri antenati.
Le pennellate nere, violente a volte sembrano capelli strappati e gettati sul foglio, o il sangue di queste donne picchiate, costrette ad abortire e a sopportare le sevizie dell’esercito.
E l’autrice chiede se era possibile un qualche tipo di sentimento amoroso, almeno per sfuggire dalla brutalità della vita, ma no non è possibile. Dove c’è tanta voolenza e sopraffazione non può esserci amore.
Questa lunga graphic novel ci racconta anche della fine della guerra, di queste ragazze che si trovavano senza niente in un paese straniero, con l’onta di essere state loro malgrado al servizio dei giapponesi, rigettate quindi dalla società, che inoltre si ritrova dilaniata dopo una guerra così brutale, con i legami spezzati e il sentimento umano a brandelli.
La storia della protagonista è una storia di infelicità e miseria, dal momento della nascita in poi, in una famiglia povera che non riesce a sfamarsi, in una società arretrata e patriarcale, dove le donne valgono meno delle bestie da soma, e devono sacrificare le loro ambizioni, anche solo andare a scuola, per lavorare fino a sfiancarsi per la famiglia.
Donne usate come oggetto di piacere durante la guerra (l’autrice sceglie di concentrarsi sulla vita di una sola e la porta a emblema ma senza tralasciare di dirci che questo è solo uno degli innumerevoli atti di brutalità commessi dall’esercito giapponese) e come serve dopo, nelle famiglie che si costruivano dove riuscivano a stabilirsi. E qui la protagonista è ancora una volta estremamente sfortunata, almeno fino al momento in cui riesce a lasciare la Cina, ormai anziana, e trasferirsi in una casa del ricordo, strutture create per ospitare le ex confort women anziane, sole e spesso ripudiate dalle persone rimaste della famiglia di origine, che faticano a fare i conti con il passato e con le responsabilità anche delle stesse famiglie coreane, che vendevano le figlie ad altri per potersi sfamare, tagliando così i ponti con loro e abbandonandole a una vita di sfruttamento e servitù domestica nella migliore delle ipotesi.
Un libro consigliatissimo e molto doloroso, la vicenda è molto appassionante ma lascia il segno.

Claudia Beretta