Eccoci nel cuore dell’estate con tre bei romanzi, molto recenti, che sembrano accomunati dalla volontà di esplorare e narrare le radici e gli esiti della violenza contro le donne.
L’età fragile di Donatella di Pietrantonio, Einaudi 2023, premio Strega di quest’anno, presenta il disagio di una madre e di una figlia e la loro difficoltà di comunicazione: forse grava ancora su Lucia il trauma di un doppio femminicidio che l’ha toccata da vicino e i sensi di colpa che il tremendo delitto ha suscitato, quando due ragazze sono state uccise e l’amica d’infanzia si è salvata a stento?
Magnifico e tremendo stava l’amore di Maria Grazia Calandrone, Einaudi 2024 indaga mediante i documenti di un famoso caso di cronaca giudiziaria, con analisi teoriche e intense ricerche poetiche, il problema una violenza domestica durata per vent’anni, in rapporto ambiguo con un grande amore, con esiti inattesi.
I giorni di Vetro di Nicoletta Verna, Einaudi 2024 ripercorre gli anni del fascismo e della liberazione mediante le storie di due donne, una mite e passiva, molto generosa, l’altra intraprendente e attiva nella Resistenza. Le loro vite si intrecciano con quelle del ragazzo e poi partigiano Bruno, noto nella Resistenza col nome di comandante Diaz, e con l’orrido e sadico gerarca fascista chiamato Vetro, per il suo occhio posticcio. La sua crudeltà viene sopportata passivamente dalla protagonista, oppressa fin dalla nascita da un ancestrale senso di colpa e di rifiuto. E’ un grande romanzo corale, scritto con uno stile efficacissimo, sulla vita di una famiglia e di un paese, tra realismo e momenti surreali in cui ricompaiono i morti.
L’età fragile,
Donatella di Pietrantonio,
Einaudi 2023, premio Strega 2024
La ragazza Amanda aveva lasciato il paese vicino a Pescara per tuffarsi con entusiasmo nella vita di Milano, aspettandosi molte possibilità. Torna a casa “spenta” e si chiude nel silenzio, nella solitudine, nella passività. La madre Lucia, che non ha mai avuto con lei un rapporto profondamente confidenziale, non sa cosa fare. Un problema di ritiro sociale che affligge tanti giovani di oggi, aggravato dal Covid; per comprenderlo bisogna scavare nelle vite delle due donne.
Lo fa l’autrice con una scrittura piana e con frequenti flashback che poco a poco dipanano il passato, suscitando grande interesse. Alle origini c’è un remoto fatto di cronaca nera accaduto nella zona, in cui due giovani donne che trascorrevano una vacanza in un campeggio del luogo erano state violentate e uccise.
Il fatto è avvenuto nella località boscosa detta Dente del Lupo, il campeggio stava in un terreno di proprietà della famiglia di Lucia, che al momento aveva circa vent’anni; la stessa età che ha ora Amanda e che avevano ai tempi del delitto le due infelici vittime, due sorelle. Il trascorrere del tempo e la volontà di non rivangare il trauma hanno lasciato un’irrisolta coltre di oblio soprattutto nella giovane Lucia, poi madre di Amanda.
I vent’anni delle ragazze che si affacciano alla vita con molte speranze sono un’età molto fragile, in cui possono radicarsi ferite, sensi di colpa, delusioni, amarezze. Ma la fragilità accompagna anche altre età della vita-dichiara l’autrice, che analizza le relazioni e le reazioni umane.
Partendo dal fatto che il terreno dell’antico campeggio diventa appetibile per gli speculatori, riemerge l’antica uccisione delle due ragazze: efferata come tutti i femminicidi e radicata nel contesto patriarcale, per alcuni aspetti arretrato.
Lucia aveva rischiato a sua volta di esserne vittima e solo per un caso non era con le amiche del campeggio, quando sui sentieri boscosi della montagna si erano perse e avevano incontrato il loro aguzzino, un giovane uomo solitario ed emarginato, di vent’anni anche lui. Età fragile. La sua amica d’infanzia Doralice, che era con loro, si era salvata dal massacro fingendosi morta ed era stata inseguita a lungo, mentre la famiglia e il paese intero la cercavano con angoscia.
Sarebbe bastata una semplice decisione diversa su come trascorrere il pomeriggio estivo con le amiche per evitare la tragedia. Perché non sono andate insieme al mare, o tutte quante nella passeggiata in montagna, sulla Maiella? Perchè sono morte le due sorelle e Doralice si è salvata? Che cosa ha scatenato nel giovane pastore, che conoscevano, una violenza così efferata? In questi dettagli si sono annidati sensi di colpa e domande irrisolte che hanno incrinato le relazioni tra le donne, subito dopo il terribile delitto e nella vita futura.
Il romanzo chiarisce anche il retroscena di un’altra violenza- molto meno grave- che aveva subìto Amanda durante la sua permanenza a Milano. La madre non si era resa conto del contraccolpo del fatto sulla figlia: delusione, insicurezza, crollo delle speranze.
Tutti i femminicidi e le violenze possono lasciare tracce profonde, di insicurezza, di mortificazione, nelle donne che li subiscono e che ne vengono toccate. Il senso di colpa nelle donne è ancestrale, deriva dal contesto patriarcale che sembra fatto apposta per mortificare, negare il diritto alla vita libera e alla gioia, se non in funzione e alla dipendenza dei maschi. Le violenze sulle donne vanno riconosciute, elaborate. Le operatrici che affrontano i casi insieme alle vittime possono concorrere a guarire queste ferite, dentro se stesse e nelle donne che hanno subìto violenza. Un lavoro delicato, essenziale. L’elaborazione può avere effetti importanti anche sul piano collettivo e della società, come dimostra la reazione fortissima e corale alla brutale uccisione della giovane Giulia Cecchettin.
Delicato ed essenziale è anche questo romanzo, in cui l’autrice lavora sul delitto e sulle implicazioni che ha avuto per tutte le persone che ne sono state toccate.
Alla riflessione psicologica e alla ricostruzione dei fatti e del successivo processo si accompagnano alcuni elementi di favola. Il tema del bosco, e del lupo nel bosco, radicato nell’inconscio collettivo, compare anche tra i primi ricordi autobiografici dell’autrice, che attraversava la foresta quando da bambina andava a scuola.
Il finale del romanzo propone alcune note di positività per Lucia, per Doralice e per Amanda. La voragine aperta dalle scavatrici per realizzare la piscina del campeggio, quasi una ferita incongrua nel terreno della montagna, viene colmata. Anche le ferite dell’antico doppio femminicidio, per Lucia e per la figlia, e per Doralice, si possono rimarginare? Forse. La speranza segue alla volontà di riaffrontare il passato.
Vittoria Longoni
Magnifico e tremendo stava l’amore,
Maria Grazia Calandrone,
Einaudi 2024
Dopo aver lavorato sulle figure delle sue due madri, biologica e adottiva, nei romanzi Splendi come vita e Dove non mi hai portato, Maria Grazia Calandrone punta la sua indagine sulle vite di una donna e di un uomo, protagonisti di un fatto di cronaca nera realmente accaduto, e ne ricostruisce le dinamiche con la cura di un’investigatrice e con le risorse del linguaggio poetico.
Il 27 gennaio 2004, dopo aver avuto con lui quattro figli e dopo aver sopportato vent’anni di violenza, Luciana Cristallo in un ultimo incontro rischioso uccide l’ex marito Domenico e ne getta il corpo nel Tevere con l’aiuto del nuovo compagno, Fabrizio.
Il 24 giugno 1965 Lucia, la madre dell’autrice, dopo anni di violenza subita da parte del marito, si era suicidata gettandosi nel Tevere, insieme al suo nuovo compagno. Ci sono molti punti di contatto tra i due episodi che motivano l’interesse dell’autrice.
Calandrone ricostruisce le figure dei protagonisti, l’amore intenso ed esuberante che li aveva uniti, le ragioni della crisi e la tenacia con cui la donna aveva sopportato ogni volta le violenze, ritirando le denunce. Scava tra i fatti documentati, le cronache e il dibattito giudiziario; accompagna nel romanzo la ricostruzione delle vite interiori dei protagonisti con riflessioni e parole poetiche, senza giudicare né lui né lei.
La violenza di Domenico si scatena improvvisa contro i mobili della casa, contro la moglie, a volte contro se stesso, che nella frenesia dei suoi colpi si può far male. Stringe le mani al collo della compagna, fino quasi a strangolarla, fermandosi un momento prima dell’irreparabile. Le denunce contro di lui si susseguono, ma vengono sempre ritirate.
Esteriormente si riconosce una dinamica di coppia comune a tanti casi di violenza domestica. Negli anni del matrimonio, lei progressivamente acquista fiducia e intraprendenza professionale, mentre lui attraversa gravi crisi nel lavoro. Inoltre ci sono quattro figli e Luciana teme che le denunce producano l’intervento dei servizi sociali e che i ragazzi possano esserle tolti e messi in un istituto.
Queste considerazioni, e le difficoltà nella crescita e nei rapporti primari, bastano a spiegare la violenza di lui e la tenace sopportazione di lei? L’autrice non si accontenta di spiegazioni superficiali e indaga il nesso tra amore e violenza.
Il romanzo segue le vicende della separazione della coppia, che comincia a concretizzarsi nel 2001 per iniziativa di Luciana, ma non pone termine al nodo del loro rapporto. “Il suo desiderio di lasciare Domenico le provoca una fitta continua di rimorso…Luciana lascia solo il bambino che aveva promesso di amare per sempre”.
L’autrice dichiara:” Ho esplorato lo spazio tra il destino – ciò che noi ci ostiniamo a chiamare destino ma non lo è perché noi lo potremmo ancora cambiare – il caso e la nostra libertà di scelta. Luciana, ad esempio, avrebbe potuto imporre a Domenico di andarsi a curare, Domenico avrebbe potuto imporre a sé stesso di andarsi a curare”
I protagonisti sono in balìa del loro stesso amore. «Sono presi da una forza più potente della loro ragionevolezza, e nel caso di Luciana, la più lucida dei due, addirittura superiore al bene dei figli. Il legame può diventare tante altre cose: gioco di potere, sfida, ma dopo che tutto è successo, Luciana parla ancora d’amore. È perturbante, ma importante da sottolineare. Perché io credo che dipingere uomini come Domenico solo come mostri, allontani il momento in cui queste vicende avranno fine. “
Ecco alcune considerazioni su Luciana, anche quando nella sua vita è comparso il nuovo compagno, Fabrizio, un uomo solido e risolto.
Tuttavia: ”La metà che corteggia la morte non smette di pensare a Domenico. E lo sogna che cresce dal suo corpo disteso. Luciana riconosce l’origine di quella suggestione onirica un uno dei capolavori di Mia Martini…Quel brano uscito quando Luciana era felice nel suo primo anno d’amore e cantava e cantava, senza capire – e del quale ormai condivide ogni giro di frase:
Quante volte /io porto i segni/del suo dolore
Quale donna non ha capito cosa significhi voler lasciare un uomo e non riuscire. Anzi, lasciarlo crescere dalle proprie mani come un figlio. Ma un figlio che divora.
Luciana ha lasciato crescere Domenico dalle proprie rovine perché ha sentito il suo dolore proprio al centro del corpo, e ne ha provato tanta compassione. Lui la occupa ancora, occupa pure i sogni che le restano, con quel corpo gigante.”
Quante frasi nelle canzoni dell’epoca alludono a forme di amore sacrificali. Come questo testo cantato da Mina con tutte le sfumature della sua voce meravigliosa:
“Tu con la faccia dura e senza sogni/sulla mia pelle sai lasciare i segni
sulle ferite poi ci metti il sale/io non capisco questo strano amore …
Più di così/mi chiedi e mi pretendi,
più di così/mi stringi e poi mi stendi
a denti stretti io ti dico sì/perché ti amo”
Queste frasi sono state spesso cantate, senza consapevolezza. Altri capitoli del romanzo mettono in rapporto la relazione tra Luciana e Domenico con gli sviluppi della vita politica e sociale nell’Italia contemporanea, che propone modelli maschili prevaricanti e illusioni di onnipotenza.
A volte così sente lui: “La pazienza che Luciana gli sparge contro offende Domenico. Non si sente trattato alla pari. Vede bene che lei lo compatisce, non lo ama. Quella stronza arrogante! Quella donna si crede un maschio alfa. Ha quella mezza bontà, quella forma vischiosa di perdono: è lei quella violenta, passiva e violenta! .. La sua bontà mefitica, irrespirabile. Domenico non si vergogna più. E’ rimasto incastrato nella parte peggiore di se stesso.”
L’autrice chiama in causa le forze primordiali della riproduzione, gli eccessi ormonali, i fattori chimici iscritti nelle leggi della natura. L’amore sembra una potenza estranea ai due, che gioca coi loro corpi e li domina.
Però restano due sorprese importanti, in quello che sembrava un copione già scritto. La prima novità è che nell’ultimo incontro tra i due non è la donna che soccombe: Domenico finisce colpito dalle coltellate di lei, che poi cerca di nascondere l’accaduto – soprattutto ai figli- e getta il corpo nel fiume con l’aiuto Fabrizio.
La seconda sorpresa è la sentenza innovativa che, una volta scoperto il cadavere, al termine del processo assolve Lucia dall’accusa di omicidio e considera la sua reazione come una legittima difesa, tenendo conto delle violenze subìte per vent’anni. Si apre così la strada alla legge contro lo stalking. Inizia una nuova cultura nella prevenzione della violenza domestica?
Ma il nesso malato tra amore e violenza non viene ancora sciolto e risolto. Resta tanta strada da fare.
Vittoria Longoni
I giorni di Vetro,
Nicoletta Verna,
Einaudi 2024
Siamo negli anni 20 del secolo ventesimo, a Castrocaro, a dieci chilometri da Forlì. Paese di concorsi di bellezza e poi luogo di nascita della Repubblica di Salò. La voce narrante è quella di Redenta, prima figlia nata viva dalla coppia di genitori dopo tre bambini nati morti o spirati al secondo giorno. Un ambiente povero e arretrato, un padre violento e del tutto inadeguato, fascista; una madre esasperata che gli dà una coltellata e al termine delle diverse gravidanze finisce in prigione; una cultura ancora impregnata di magia.
A giudizio della famiglia e del paese, la bambina porta con sé la malasorte (la “scarogna”); secondo lo stregone che ha dato la rozza “ricetta” del suo concepimento, questa è la sinistra eredità dei suoi fratelli “morti senza battesimo”. La bambina, molto docile e poco reattiva, non parla fino ai suoi cinque anni, per mutismo e poi per scelta. Non piange mai. In séguito nascono due altre figlie, Marianna e Vittoria.
L’autrice mediante un linguaggio molto vivace, impreziosito da forme dialettali romagnole, racconta questa famiglia e questo paese fino alla Resistenza e alla liberazione e oltre. Redenta nasce a Castrocaro il 10 giugno del 1924, il giorno del delitto Matteotti. In paese si pensa che a causa della” scarogna” non arriverà nemmeno alla festa di San Rocco. Invece il giorno della festa lei è viva, mentre viene ritrovato il corpo di Matteotti.
La storia di Redenta, della sua famiglia e del paese e il ventennio fascista scorrono in parallelo. La poliomielite lascia Redenta sciancata per sempre. Ma la donna ha in sé delle risorse che l’aiutano a resistere e una generosità che la spinge a salvare gli altri.
Il suo amico d’infanzia, Bruno, appassionato di giustizia fin dai primi anni, l’aiuta a parlare e la difende dagli insulti e dalle offese, si confida con lei e promette di sposarla. Poi scompare inspiegabilmente, ma la ragazza lo aspetterà sempre.
La vita difficile di Redenta si svolge come sotto un destino avverso, che possiamo leggere, oltre alle circostanze fattuali, come l’esito di un senso di colpa radicato nelle sue origini: una bambina oppressa dalla “sindrome della sopravvissuta” dopo tre fratelli morti, disprezzata e quasi ignorata dal padre, considerata dalla madre come votata irrimediabilmente alla sofferenza. Il fascismo imperante, le circostanze avverse e lo scoppio della guerra renderanno impossibile che la promessa di Bruno venga mantenuta. Alla fine per lei non ci sarà altra sorte se non quella di sposare Amadeo Neri, il temuto gerarca fascista detto Vetro, un uomo sadico e perfino necrofilo.
“La violenza, diceva lui, era la linfa dell’Italia, la buona madre che li aveva nutriti e spinti fra le braccia della civiltà. Non poteva esserci ordine né progresso, senza violenza… la violenza è la persuasione del vostro Dio”.
Diversa invece la vita delle sorelle: Marianna si innamora e attende il ritorno del suo uomo dal fronte, Vittoria invece studia per diventare infermiera e poi medico, e si trasferisce a Firenze.
Dal momento in cui nella vita di Redenta entra Vetro, tutte le sue energie sono impegnate nel sopravvivere al suo aguzzino, a colui che l’ha voluta pensando di poter fare di lei l’oggetto docile delle sue perversioni. Doveva obbedire e sottostare a una sessualità terribilmente crudele. Redenta resiste e sopporta e non sa trovare vie d’uscita. Alle radici della sua passività, sta un remoto e immotivato senso di colpa, che si radica nelle sue origini di bambina sopravvissuta a tre fratelli morti e trova conferme nel maschilismo imperante. Solo in una situazione estrema riesce infine a sfogare il suo dolore nel pianto. “E d’un tratto iniziai a piangere, ed era una cosa nuova, perché nella mia vita io non avevo pianto mai e mi faceva specie che il dolore spaccava così il suo guscio e colava fuori, dove potevano vederlo tutti.» Redenta non perde mai la sua gentilezza, che la rende capace di pietà e della volontà di salvare le persone in pericolo.
Bruno invece crede attivamente nei valori e nella giustizia, in modo intransigente. Dopo il suo allontanamento improvviso, ricompare molti anni dopo col nome e la personalità del comandante partigiano Diaz, implacabile combattente per la giustizia.
La vita di Redenta incrocia quella di Iris, che si alterna a lei nel romanzo come seconda voce narrante. Nata a Tavolicci, Iris è cresciuta tra i banchi della scuola che sua madre ha costruito. La ragazza lascia poi il paese per trasferirsi a Forlì. Qui conosce il comandante Diaz e soprattutto abbraccia la causa antifascista. Il fascismo dilaga; le camicie nere non hanno pietà per nessuno. Insieme all’amore, per Iris c’è la necessità di ripartire, di credere in un ideale per sopravvivere all’oppressione che sta provocando ovunque vittime e morte.
Le storie dei protagonisti – le due donne dal carattere diverso, Redenta e Iris, e i due uomini attivi su fronti opposti, l’orrido gerarca Vetro e il partigiano Bruno/Diaz – si intrecciano. Le due voci narranti si alternano. Si susseguono incalzanti gli eventi, intervallati da momenti onirici in cui Redenta vede ricomparire davanti a sé i fantasmi dei fratelli morti.
La narrazione è avvincente, lo stile molto vivido risente delle esperienze artistiche di Morante e di Fenoglio. Nell’insieme il romanzo è duro, perché mette in rilievo le forme più atroci di un male –connesso al patriarcato- che il fascismo esaspera, ma che preesiste al Ventennio e non si risolve del tutto neppure con la Liberazione. Il rancore delle donne verso i maschi prevaricatori resta venato a volte da fascinazione e desiderio. L’atrocità della guerra e delle distruzioni segna tutte e tutti. Resta però nelle due donne, in modi diversi, una volontà tenace di salvarsi, di riscattarsi. Redenta scopre a volte in sé energie insperate. Vari modi di resistere, di salvare insieme sé stessi e l’altr*.
Vittoria Longoni