di Paola Redaelli.
Da mesi non riesco a pensare e dunque a scrivere più niente su ciò che accade a Gaza e nella Palestina occupata.
Non ci sono riuscita – e non ci riesco quasi ancora oggi – tanto è l’orrore e l’impotenza da cui ero sopraffatta e in cui continuo a essere immersa.
Penso che nella mia stessa condizione vivano milioni e milioni di persone nel mondo, ma ciò non mi consola.
Dunque, la sera del 3 gennaio 2025, ore 21 circa, leggo sul sito di “Al Jazeera”:
- “Tra il 24 e il 30 dicembre, undici palestinesi, tra cui due donne e due bambini, sono stati uccisi dall’esercito israeliano. Dieci di loro sono stati uccisi nell’arco di 48 ore tra il 24 e il 25 dicembre nella Cisgiordania settentrionale. Otto sono stati gli uccisi in attacchi aerei dell’esercito israeliano.
- Almeno 21 famiglie palestinesi, in tutto 94 persone, restano sfollate a seguito di un’operazione durata due giorni dell’esercito israeliano nei campi profughi di Tulkarem e Nur Shams. L’operazione ha danneggiato circa 1.050 unità abitative”
Passo poi a leggere il rapporto sulla situazione umanitaria (Humanitarian Situation Update) nella Palestina occupata, pubblicato due volte alla settimana dall’United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA) – Occupied Palestinian Territory, che dà conto con linguaggio burocratico delle ultime tragedie avvenute nella Striscia di Gaza (ogni martedì) e in Cisgiordania (ogni giovedì).
Per quanto riguarda la Cisgiordania il rapporto recita:
- “Tra il 24 e il 30 dicembre, undici palestinesi, tra cui due donne e due bambini, sono stati uccisi dall’esercito israeliano. Dieci di loro sono stati uccisi nell’arco di 48 ore tra il 24 e il 25 dicembre nella Cisgiordania settentrionale. Otto sono stati gli uccisi in attacchi aerei dell’esercito israeliano.
- Almeno 21 famiglie palestinesi, in tutto 94 persone, restano sfollate a seguito di un’operazione durata due giorni dell’esercito israeliano nei campi profughi di Tulkarem e Nur Shams. L’operazione ha danneggiato circa 1.050 unità abitative”.
Come se non bastasse, l’OCHA riporta anche che:
“Dall’inizio dell’operazione delle forze di sicurezza palestinesi nel campo profughi di Jenin, il 5 dicembre, sono stati uccisi undici palestinesi: tra gli altri due bambini, una donna e cinque membri delle forze di sicurezza palestinesi. Negli ultimi 26 giorni, a Jenin, l’accesso ai servizi di base, tra cui istruzione, acqua e sanità, è stato gravemente compromesso”.
A questo punto mi ritorna in mente che, il 5 dicembre 2024, le Forze di Sicurezza Nazionale dell’Autorità Palestinese (AP) avevano iniziato un’operazione su larga scala nella città cisgiordana di Jenin contro le Brigate Jenin, una milizia palestinese locale.
L’AP l’ha chiamata “Operazione Proteggi la Patria” [ndr: ???] e afferma che è stata lanciata per “sradicare la sedizione e il caos” [ndr: ???] in Cisgiordania…
Passo poi a “+ 972 Magazine”, e mi imbatto in un articolo della giornalista palestinese-israeliana di Haifa, Mariam Farah, sulle violenze fisiche e sessuali riservate dai militari (di sesso femminile e maschile) alle donne palestinesi arrestate in Israele senza alcuna motivazione e poi rilasciate dopo qualche giorno, previo sequestro dei loro cellulari e persino condanne agli arresti domiciliari (come per un anno è toccato all’attrice Maysa Abed-Alhadi, alla quale è stato anche interdetto per sempre l’uso dei social).
A me, come a qualsiasi lettrice, immagino, non possono non riaffacciarsi alla mente le fotografie delle soldatesse americane di Abu Ghraib che torturavano i prigionieri e li costringevano a masturbarsi davanti a loro.
Quelle però sono state punite, mi dico.
(A proposito di prigioni israeliane: sappiamo ciò che vi succede da molto prima del 7 ottobre, anche se non abbiamo fotografie. Difficile non pensare a quelle cilene, delle quali anche non rimangono immagini. Cfr. Nasser Abu Srour, Il racconto di un muro, trad. Elisabetta Bartuli, Feltrinelli, 2024).
Infine risparmio, innanzitutto a me stessa, di riportare per intero la lettera scritta (tra gli altri al loro premier) da 10 parlamentari israeliani membri della Commissione Affari Esteri e Difesa il 31 dicembre 2024 (pubblicata da “Mondoweiss”), in cui chiedono di “modificare” il comportamento dell’esercito israeliano a Gaza e in qualsiasi altra zona d’interesse israeliano e siano date all’IDF istruzioni “chiare: 1. Distruzione a distanza di tutte le fonti di energia, cioè carburante, pannelli solari e ogni mezzo pertinente (tubi, cavi, generatori ecc.). 2. Eliminazione di tutte le fonti di cibo, compresi i magazzini, l’acqua e tutti i mezzi pertinenti (pompe per l’acqua, ecc.). 3. Eliminazione a distanza di chiunque si muova nell’area e non esca con una bandiera bianca [ndr: da quando l’esercito israeliano tiene conto delle bandiere bianche?] durante i giorni di assedio effettivo. Dopo queste azioni e i giorni di assedio per coloro che rimangono, l’IDF deve entrare gradualmente e condurre una pulizia completa dei rifugi nemici”.
Siamo al 6 gennaio e mi pare che all’appello dei dieci parlamentari israeliani sia stata data immediata ed effettiva risposta sul campo.
Ecco, ricordate il film La zona d’interesse (2023) e il discorso del regista Jonathan Glazer alla consegna dell’Oscar?
Lui diceva che il suo film non racconta affatto il nostro rapporto con l’Olocausto, ma il nostro rapporto con qualsiasi atrocità, menzionando espressamente la guerra tra Israele e Hamas: noi cerchiamo di non vedere, non affrontare, dimenticare.
Ho letto a suo tempo non so dove un’intelligente recensione in cui si osservava che la camera fissa con cui era stata girata buona parte del film rappresenta il nostro occhio che guarda immobile (senza che noi facciamo alcunché, senza che noi reagiamo) le efferatezze, le azioni spietate che avvengono sotto i nostri occhi.