pVenerdì 15 maggio alle ore 18,30 alla Casa delle Donne ricordiamo Grazia Livi che ci ha lasciate il 18 gennaio scorso.

Ho incontrato la prima volta Grazia dopo l’uscita del suo saggio “Narrare è un destino”, perché ne avevo scritto una recensione per “Il Giorno” e lei mi aveva chiamata, per “conoscermi”, mi aveva detto. Mi disse che anche lei aveva fatto la giornalista, ma quello non era un vero “scrivere”, piuttosto un rincorrere i fatti, la superficie delle cose, uno stare “fuori di sé” e lei invece voleva, aveva voluto sostare presso se stessa, trovarsi e trovare uno “spazio di raccoglimento” (la stanza, la famosa stanza tutta per sé di Virginia Woolf) fisico, certo, ma più che altro interiore in cui scovare la propria identità, la propria singolarità.

“Ho sempre pensato me stessa come a una donna che scrive…Il genere cui appartengo è distinzione e orgoglio per me. E’ all’interno del mio genere, e dell’esperienza del mio genere, che io trovo le parole necessarie..” dice in “Narrare è un destino”. Chiamava “stupefacenti cantine, le cantine dell’identità” quei ripostigli occulti e occultati dove le donne scrittrici, sue compagne di viaggio che non si erano ancora assegnate il diritto di scrivere, conservavano diari e pensieri. E dalla cantina sono arrivate a pronunciare la parola “io e far uscire dall’ombra quel pronome per dargli risalto e situarlo in una diversa luce”.

Una terra di nessuno, però, dove doppio è lo spaesamento: nominarsi e darsi un’identità e allo stesso tempo contrastare un universo di segni e codici dimidiati da un linguaggio che ci ha “dette”, senza darci il diritto di “dirci”. La lingua, la sua prosa, un lavorio paziente, doloroso e luminoso che cerca, cancella, riscrive alla ricerca di una unitarietà “tra materia e astrazione, corpo e spirito”. “Tutta la mi vita è una storia di parole pensate che mi hanno pungolato come uno sciame d’api”, ha dichiarato.

E i suoi saggi: “Da una stanza all’altra”, “Le lettere del mio nome”, “Narrare è un destino” ancora una ricerca di  storie di donne dalla sua amata Virginia Woolf a Caterina Percoto, da Simone de Beauvoir, Emily Dickinson, Jane Austen ad Anna Banti e ancora da Colette, Carla Lonzi, Ingeborg Bachmann a Madre Teresa di Calcutta, Anna Maria Ortese sino al racconto delle origini del suo desiderio di scrivere. Si dicono biografie, si dice il suo un ripercorrere la più grande letteratura femminile del ‘900. Ma come le racconta queste donne? Le va ad osservare  nelle piccole cose, nelle pieghe private della loro vita: ritrosie e timidezze, o nelle “cantine” della loro identità, nel quotidiano che intreccia a citazioni, rimandi, confronti, perché nello scrivere le donne portano e vogliono affermare la loro interezza: la vita incarnata.

Rottura dell’obiettività e di un genere codificato, contaminazioni, ma anche emergere di lacerazioni, fessure da cui  affiora l’”io” dell’autrice che scrive: schegge, lampi del suo privato sentire accanto e dentro la storia delle altre di cui parla. Ne deriva un fluttuare in doppi, multipli  universi, in cerchi concentrici di conoscenza e profondità che si aprono. Così come accade anche nei suoi racconti e romanzi: “L’approdo invisibile”, “La finestra illuminata”, “Lo sposo impaziente” sino a “Il vento e la moto”, per citarne alcuni. Quando uscì quell’appassionato romanzo “Lo sposo Impaziente”, che parte dagli albori di un amore difficile e intenso tra Lev Tolstoj e Sofja  Andreevna e tanto e tanto lavoro le era costato con viaggi in Russia, letture dei voluminosi diari di Sonja, le chiesi: ma Grazia, chi più ti corrisponde dei due protagonisti? E lei mi rispose: “Lev Tolstoj”.

Francesca Amoni