Gaza City, 6 marzo 2018, Nena News – Dal porto di Gaza vengono su tanti rumori stasera. C’è una banda musicale che suona ma in lontananza si sentono quattro, cinque, poi altri tre o quattro forti boati. Poi c’è il ronzio di un drone. Ma c’è anche musica, perciò la prima cosa che viene in mente è che siano fuochi d’artificio. Forse c’è un matrimonio, una festa importante. Invece no, con una disarmante naturalezza ti dicono che è la marina militare israeliana che sta sparando sui pescherecci per non farli arrivare a tre miglia dalla costa. E’ così Gaza.
Visto che la violenza israeliana è quotidiana si vive lo stesso. Si spera che non abbiano ammazzato nessuno – l’ultimo pescatore ucciso pochi giorni fa era un ragazzo di 18 anni – e si continua a vivere.
Proprio oggi, tra musica e spari, una voce nuova è venuta a parlarci. E’ quella di una giovane donna di nome Hanaa. Vuole raccontarci la sua storia. Dopo averla ascoltata decidiamo di pubblicarla perché manda un messaggio forte e addirittura positivo a un mondo distratto e così abituato al dolore degli altri da non sentirlo più.
Hanaa viene dal campo profughi di Al Burji, a est della Striscia, uno degli otto campi in cui arrivarono parte dei palestinesi scampati agli eccidi commessi dal nascente Stato di Israele nel 1948. E’ troppo vicino alla linea dell’assedio per avere una vita tranquilla ma nonostante ciò ad Al Burji ci sono delle realtà incredibilmente positive che solo i gazawi sanno creare in mezzo a tanta devastazione.
Hanaa è l’esempio vivente di una di queste realtà. Il destino non è stato gentile con lei, né con la sua famiglia, a cominciare da un padre espressione del maschilismo più brutale al punto che lei lo ricorda solo come l’uomo che entrando in casa seminava il terrore picchiando la mamma, lei e i suoi 8 fratelli. Poi, un giorno di 23 anni fa, quando lei non aveva ancora dieci anni, andò a lavorare in Israele e non tornò più, dimenticandosi della sua famiglia la quale, a sua volta, prese la sua fuga come una liberazione perché, come si sa, Allah w akbar, cioè Dio è grande e misericordioso!
Poi, tra un episodio e l’altro, gli anni sono passati, una sorella si è sposata, poi un fratello ed Hanaa si è trovata ad essere zia di alcuni bambini, uno dei quali sarà determinante nella sua vita a partire dal 2009, l’anno in cui la Striscia di Gaza fu martoriata da uno dei peggiori bombardamenti che la storia ricordi. Il campo profughi di Al Burji fu una delle zone più bombardate e ancora oggi si vedono, sebbene sbiaditi dal tempo, i manifesti funebri che ricordano i numerosi martiri di quel massacro. In soli 22 giorni, tra il 27 dicembre e il 18 gennaio Israele fece circa 1.300 vittime immediate tra cui circa 400 bambini e oltre 5mila feriti, non tutti sopravvissuti. Poi cessò i bombardamenti.
Il 19 gennaio i media scrissero che era cessata la guerra. In realtà era cessato il massacro che Israele chiamò “Piombo Fuso” e che già nella denominazione scelta presentava il suo macabro e criminale disegno. Ma che la si chiami guerra o aggressione si sa che a fine bombardamenti il terreno contiene ancora, e in modo subdolo, l’odio scaricato dal cielo.
Così, un giorno in cui non faceva più freddo e i bambini erano di nuovo in strada a giocare, Mahmud, il nipotino di 5 anni di Hanaa trovò un oggetto metallico e cominciò a giocherellarci. Hanaa non fece in tempo a toglierglielo dalle mani che questo oggetto di odio in differita esplose.
Sopravvissero entrambi, il bambino subì una serie di operazioni tra cui un complicato intervento all’addome per l’asportazione di una parte dell’intestino e la ragazza, dopo una serie di operazioni al fianco e alla gamba, subì l’amputazione della mano destra. Non passò molto tempo che due dei suoi fratelli morirono nella distruzione del primo tunnel da parte dell’Egitto. Quei tunnel attraverso i quali Gaza importava cibo e medicinali per sopravvivere all’assedio erano, e tuttora sono, l’incubo di Israele il quale ordinò all’Egitto di distruggerli. Il primo ad essere distrutto uccise i due fratelli di 24 e 29 anni lasciando una giovane vedova con tre bambini che Hanaa avrebbe aiutato a crescere nonostante la sua menomazione.
Fin qui è solo una delle tante brutte storie. Non è neanche una delle peggiori e lei, mentre la racconta, ogni tanto sorride dicendo che è stata comunque fortunata. Certo, visto che tutto è relativo e mettendo a confronto la sua storia con altre peggiori, possiamo crederle. Ma seguitando ad ascoltarla capiamo il perché del suo essere fortunata e questo – a noi occidentali che spesso vediamo Gaza solo come un cumulo di macerie e che siamo storditi da una propaganda pietista e al tempo stesso sprezzante che mostra i gazawi come pezzenti disperati – sembra qualcosa di straordinario.
Questa testimone diretta della vita gazawi ci dice che l’Università Islamica, una delle numerose università della Striscia di Gaza, ha sviluppato un progetto per giovani invalidi. Si chiama Erada, che in arabo vuol dire “forza di volontà” e che per lei è stato importantissimo, tanto che oggi si sta laureando. Con questo progetto collabora Markaz Al Watani, un’associazione di donne invalide estremamente attiva che un giorno l’ha contattata e l’ha convinta che senza la sua mano destra poteva ugualmente fare una vita normale.
Questa ragazza colpita dalla povertà, dalla violenza di un uomo capitatole come padre, dall’assedio israeliano, da una serie di lutti dolorosi, da una bomba scoppiata fuori tempo, non immaginava che con l’aiuto di altre donne, qui, nella prigione più grande del mondo, sarebbe stata in grado di diventare un’atleta selezionata per il lancio del disco e del giavellotto e un’abile artigiana capace di dipingere sulla ceramica con la mano sinistra. Ci dice che questo incontro con donne invalide che lavorano con e per altre donne è stato la sua vera fortuna. E noi le crediamo. Oggi il suo sogno è solo quello di avere una protesi che non la faccia più vergognare del suo moncherino che ora tiene nascosto.
Tra qualche giorno il mondo festeggerà, o commemorerà, la giornata della donna e Hanaa mostrerà i suoi lavori fatti con la mano sinistra, affermando con essi la sua storia di donna “ordinariamente combattente” in un contesto di autentica resilienza. Non sappiamo se un giorno questa ragazza riuscirà ad uscire da Gaza per avere la protesi che sogna, ma la sua storia è il messaggio vivente di quella capacità di sconfiggere il negativo storico facendo ricorso alla “erada”, la “forza di volontà” che, in fondo, è volontà di vivere che i gazawi insegnano al mondo. Per questo ve l’abbiamo raccontata.
Patrizia Cecconi
Articolo tratto dal sito Nena News (Near East News Agency – Agenzia Stampa Vicino Oriente)