di Floriana Lipparini
“Il mio mondo, la mia Terra, è una rovina. Un pianeta rovinato dalla specie umana. Ci stiamo moltiplicando e ci siamo ingozzati e abbiamo combattuto finché non è rimasto più nulla, e poi siamo morti. Non abbiamo controllato né gli appetiti né la violenza: non ci siamo adattati. Abbiamo distrutto noi stessi. Ma prima abbiamo distrutto il nostro mondo. Non rimangono più foreste sulla mia Terra. L’aria è grigia, il cielo è grigio, fa sempre caldo…”, questo dice l’ambasciatrice Keng a Shevek il viandante, incontrato sul pianeta Urras nei Reietti dell’altro pianeta, la splendida utopia scritta da Ursula Le Guin nel lontano 1974.
La geniale mente di Ursula Le Guin non è unica. Lei, figlia del noto antropologo Alfred Louis Kroeber e della scrittrice Theodora Kracaw, “l’autrice immensamente popolare che portò profondità letteraria e una tenace sensibilità femminista alla fantascienza e al fantasy con libri come La mano sinistra delle tenebre e il ciclo di Earthsea” (dal necrologio sul New York Times), seppe leggere nel futuro con gli strumenti della science fiction, come altre grandi donne riuscirono a fare in campo scientifico. Nomi che in questi tempi si sentono finalmente ricordare: da Rachel Carson a Evelyn Fox Keller, a Laura Conti, a tante altre.
La capacità di anticipare il futuro interpretando segnali apparentemente invisibili sembra essere una virtù femminile ben diversa da quelle ancillari che per comodità ci sono state attribuite dal pensiero dominante, una virtù politica nel senso migliore del termine in quanto utile a cambiare rotta in tempo, prima del disastro, ma come sappiamo le “profezie” delle donne sono rimaste inascoltate quando non derise. Le vicissitudini di Rachel Carson ne sono un triste esempio.
In questi strani tempi del Covid, durante la cosiddetta emergenza che sarebbe meglio invece definire conseguenza, da più parti si sta improvvisamente parlando delle donne come di una carta vincente, si parla del pensiero femminista ed ecofemminista come di un salvifico rimedio rispetto alle devastanti politiche neoliberiste produttrici dell’humus perfetto per favorire la tragica epifania di un virus che salta i confini delle specie perché dei confini se ne infischia.
Se ne parla, ma lasciando da parte lo stupore per la tardiva scoperta di qualcosa che esiste da molto tempo, è facile profezia aspettarsi che presto tutto questo verrà inglobato nella ritrovata “normalità” e usato come uno strato di vernice buono a confondere le idee per convincere che il cambiamento è avvenuto.
Sarebbe tragico e suicida per la specie umana, che a dir la verità non so nemmeno quanto meriti di essere salvata, e per il pianeta. Va quindi riaffermato e tutelato nella sua originalità l’autonomo pensiero ecofemminista sulla società, sull’ambiente, sull’economia, sulla tecnologia. Non si parte a mani vuote, perché una traccia del cammino da fare già si trova nei preziosi scritti di autrici molto amate come Silvia Federici, Donna Haraway, Maria Mies, Vandana Shiva, Alicia Puleo, Elisabetta Donini e molte altre.
Sta arrivando il tempo della rivoluzione femminista? In alcuni luoghi del mondo in parte questo sta già accadendo. Le donne curde in Rojava, tanti gruppi di donne indie in America Latina, tante giovani donne in Europa a bordo delle navi di soccorso umanitario ai migranti… Stanno costruendo il cambiamento con i loro pensieri divergenti rispetto al potere, con la loro capacità di autodeterminazione e di concretezza. Sfidano i governi e rischiano la morte per costruire società umane, per salvare più vite possibile e testimoniare gli orrori dei respingimenti collettivi verso i lager libici. La radicalità positiva e costruttiva di queste donne è una delle poche luci che illuminano il mondo e fanno sperare nel cambiamento vero. C’è solo da augurarsi che siano questi esempi a “contagiare” il resto del mondo, invece del Covid. Ma la sproporzione fra la dimensione di queste pratiche autogestite e l’onnivora pervasività del sistema dominante è ancora immensa.
Qui da noi a interrogarci, forse assai peggio del Covid, dovrebbe essere la quintessenza razzista che la continua strage genocida nel Mediterraneo rappresenta, il rigurgito nazista che la selezione delle vite da salvare configura, che sia per insufficienza di respiratori o per indifferenza verso una morte che poteva essere evitata ma non ci riguarda. Ad affogare nel Mediterraneo per mancanza di soccorsi sono le altre e gli altri. Non hanno la nostra carta di identità.
In quei naufragi, però, insieme ai principi cardine della democrazia rischiamo di affogare anche noi, se non ci accorgiamo in tempo che si sta profilando un modello di mondo ancor più escludente e autoritario che in passato, ancor più nemico dei nostri corpi di donne e delle nostre libertà.
Black Lives Matter sta finalmente coinvolgendo tutto il mondo nella grande lotta degli afroamericani, ma anche da noi nel vecchio continente la linea del colore può fare oggettivamente differenza fra la vita e la morte, perché i migranti nella maggior parte dei casi non hanno la pelle bianca. Apparentemente non è questo il motivo per cui vengono respinti, ma come si fa a non vederne l’ombra al fondo del substrato razzista e colonialista degli italiani “brava gente”? Ne è dimostrazione l’ipocrita indignazione di tante anime belle rispetto alla statua imbrattata di Indro Montanelli, un personaggio glorificato in quanto “sapeva scrivere” ed era colto, come se questo dovesse giustificarne le posizioni intimamente fasciste e l’osceno “matrimonio” con una bambina eritrea.
Non so se è davvero questo il momento in cui la forza dei movimenti femministi e ecofemministi potrà cambiare la storia. Forse si è aperto un varco e dobbiamo usarlo qui e ora come se fosse l’ultimo treno per ripensare materialmente e concettualmente l’economia, la giustizia, il lavoro, la salute, i diritti, la cittadinanza, la scuola e ovviamente i rapporti fra i generi… A partire da noi, dalle nostre case, dalle nostre città, da tutti i luoghi in cui si svolge la vita personale, sociale e politica, accettando l’inevitabile conflitto col potere innescato dalla volontà di cambiare le cose.