di Grazia Longoni.
Ogni giorno, da quasi un anno, ci confrontiamo con gli “esperti”. Sulla pandemia – e ultimamente sui vaccini e sulle possibili terapie – epidemiologi, virologi, ricercatori ci inondano di cifre, indicazioni, previsioni. Spesso diverse, a volte contrastanti, prive di certezze. Eppure agli esperti e ai loro dati continuiamo a chiedere risposte a una situazione che ha portato nelle nostre vite restrizioni, sofferenze, paure. Di Covid 19 abbiamo parlato più volte nei mesi scorsi alla Casa delle Donne. Venerdì 8 gennaio abbiamo affrontato il tema dal punto di vista scientifico.
“Fiumi di informazioni provenienti da fonti scientifiche ci raggiungono da ogni media possibile” ha detto nell’introduzione Floriana Lipparini, che ha organizzato l’incontro. “Ma la nebbia su questo misterioso virus non si è molto diradata. Misterioso perché in effetti la scienza non riesce a dare risposte sicure quasi su nulla: dove e come il virus ha avuto origine, perché si diffonde in questo modo, perché colpisce alcune persone più di altre, perché in alcuni casi ha un impatto letale e in altri no. Finora non si sono trovate terapie farmacologiche efficaci, e solo il quasi miracoloso arrivo dei vaccini sembra aprire finalmente una speranza. Ma capire quali vaccini, quali differenze, quali sicurezze, non è per niente facile. Sarebbe anche importante capire quanto lo sfruttamento irresponsabile dell’ambiente abbia facilitato l’esplosione di questa pandemia, ma su questo la scienza poco ci dice.
E se questa lettura della crisi pandemica fosse parziale, connotata com’è dalla presenza prevalente di voci maschili, rispetto a un concetto di cura visto dalla parte delle donne? Sappiamo quanto storicamente la scienza sia stata patrimonio maschile, ma oggi per fortuna le cose stanno cambiando e c’è la possibilità di rompere la fortezza chiedendo l’opinione di scienziate donne. Come le due relatrici che hanno gentilmente accettato il nostro invito e che hanno entrambe incarichi di grande responsabilità”.
Oltre a Laura Cima, femminista ed ecologista, promotrice del Laboratorio ecofemministe e sostenibilità, erano con noi Sara Gandini, epidemiologa e leader del gruppo di ricerca di epidemiologia molecolare e farmacologica presso lo IEO di Milano, Roberta Pelanda, docente di Immunologia e Microbiologia alla University of Colorado.
Cercavamo con loro un punto di vista competente ma anche consapevole delle differenze.
E lo abbiamo trovato. Perché di molte differenze abbiamo discusso: non solo di quella di genere tra donne e uomini, ma anche di quelle legate all’età, al colore della pelle, alla condizione sociale ed economica, alla geografia. Come la politica, la scienza e la ricerca sono cose troppo serie per lasciarle in mano agli uomini” ha esordito Laura Cima parafrasando una famosa citazione e indicando l’ampia gamma di problemi che stanno alle spalle non solo di questa pandemia ma di tanti disastri ecologici che incombono sul presente e sul futuro del pianeta.
Le donne resistono al virus meglio degli uomini: perché?
Ce lo ha mostrato Sara Gandini, con grafici e tabelle. In Italia, il tasso di letalità (numero di morti per persone con sintomi Covid, che cresce molto con l’anzianità) è per le donne circa la metà di quello degli uomini. Questo in tutte le fasce d’età, ma in modo ancora più netto dopo i 70 anni. Lo stesso accade, con valori più bassi (perché il tasso dipende dal numero di tamponi che vengono effettuati) se si considera il rapporto tra morti e persone entrate in rapporto col virus, comprese quelle asintomatiche. Le cause? Una ricerca negli Usa indica che le donne hanno avuto, fin dall’inizio della pandemia, comportamenti più prudenti. In Italia, le donne hanno anche un minor numero di patologie croniche, che aumentano il rischio Covid (grafico). Sono più attente alla salute e alla prevenzione, consultano i medici più spesso.
Alcune ipotesi biologiche sono state aggiunte da Roberta Pelanda: una diversa produzione di alcune proteine del sistema immunitario come l’interferone, che in alcuni uomini è insufficiente; la presenza di recettori del sistema immunitario innato sul cromosoma X, che è doppio nel Dna femminile; la presenza degli estrogeni (che però cala molto dopo la menopausa). Tuttavia, le donne non solo sono state più colpite (grafico), ma hanno sofferto di pandemia più degli uomini: secondo un’altra ricerca Usa, dichiarano un impatto del virus sulla loro salute mentale più alto di quello espresso dagli uomini.
Altre differenze: Nord e Sud, inquinamento.
Al Sud, sia i contagi sia i decessi sono inferiori rispetto al Nord anche nella seconda ondata della pandemia. E qui le cause possono essere molteplici: dalla forte presenza al Nord di persone nelle residenze per anziani, allo stile di vita, alla maggior mobilità sul territorio. Qualcuna, dal pubblico, ha chiesto quanto pesa l’inquinamento atmosferico della pianura padana: un elemento non facile da dimostrare, secondo le scienziate, ma che è stato ipotizzato anche in ricerche su alcune contee del Nord degli Stati Uniti.
Povertà, deprivazione, colore della pelle.
In Italia e in tutto il mondo, più ancora della presenza di altre patologie (cardiovascolari, diabete, tumore, asma) contano le condizioni di deprivazione: dati americani dimostrano che le persone in stato di povertà, che si alimentano male, abitano in case piccole o malsane, hanno un basso livello di istruzione, hanno un rischio di morte raddoppiato di fronte al Covid. Il rischio degli afroamericani, per esempio, è del 50 per cento superiore a quello dei bianchi. Una situazione che la rivista scientifica Lancet ha definito sindemia, cioè una pandemia non solo sanitaria, ma anche sociale, economica, psicologica.
Vaccini, le nuove frontiere.
Molto interesse, e molte domande, hanno accompagnato la relazione di Roberta Pelanda. Collegata da Denver, ha spiegato in modo molto chiaro i meccanismi di risposta al virus, sia quelli innati, sia quelli innescati dall’esposizione al virus e dai vaccini. Anzitutto ha tranquillizzato sulla sicurezza dei vaccini anti Covid: sono stati realizzati in un tempo record, ma non è stata saltata nessuna fase. La rapidità è frutto dell’enorme sforzo e investimento che ha impegnato ricercatori e laboratori di tutto il mondo. Ed è stata possibile anche grazie ad alcuni anni di ricerca su coronavirus simili, come quelli di Sars e Mers. Ha poi parlato dei vaccini più innovativi, Pfizer e Moderna (già disponibili anche in Italia) basati sul RNA e Johnson & Johnson, basato sull’adenovirus, alla cui sperimentazione partecipa come volontaria.
Ha escluso del tutto ogni rischio di interferenza sul DNA:
anzi, i nuovi meccanismi di funzionamento rendono i vaccini molto più semplici da “riprogrammare” nel caso il virus mutasse. I dati sull’efficacia sono molto alti. Pfizer protegge al 95 per cento: per avere un confronto, la protezione fornita dai tradizionali vaccini antinfluenzali va da 30 al 60 per cento. Meno chiara, al momento, la protezione fornita dal vaccino AstraZeneca, in questi giorni all’esame dell’autorità europea sui farmaci Ema. Altri chiarimenti: la vaccinazione può dare lievi sintomi che passano in pochi giorni, rarissimo (1 su 200 mila) il rischio di reazione allergica grave, che richiede l’immediato intervento medico. Come si sa, l’immunità si attiva in alcune settimane (quindi bisogna continuare a proteggersi) ed è completa solo dopo la seconda iniezione. Le due scienziate hanno espresso parere favorevole sulla possibilità che la seconda dose possa essere leggermente ritardata per consentire una più larga somministrazione della prima. Su questo, così come sulla durata della copertura, che al momento è di circa 4 mesi, studi e verifiche continuano.
Alla domanda se non sia meglio vaccinare prima le persone più giovani e sane, la risposta è stata negativa: al momento si sa che il vaccino protegge dalla malattia, non se impedisce anche il contagio. Particolarmente chiara la tabella su “quante persone bisogna vaccinare per salvarne una dalla morte”: fino a 19 anni si tratta di 500-600 mila persone, poi i numeri scendono: sopra i 70 bisogna vaccinare 300 persone, sopra i 90 una cinquantina.
Infine, è escluso al momento che si possa scegliere quale vaccino fare: nessuna azienda è in grado di produrre i quantitativi mondiali necessari. Secondo le ricercatrici, è importante che la produzione sia dislocata in tutto il mondo, compresi paesi come Cina, India, Russia. Ma, è stato fatto notare da alcuni interventi, dovremo vigilare sia sul rischio che prevalgano interessi economici potenti, sia sulla necessità che tutti i Paesi, compresi i più poveri, abbiano le dosi necessarie.
Sulle terapie.
Una prima famiglia di farmaci (Remdesivir, anticorpi ricombinanti, plasma dei convalescenti) aiutano i malati diminuendo i sintomi ma non eliminano il rischio di morte. Una seconda famiglia (cortisone, interferone) può aiutare quando ci sono problemi specifici nel sistema immunitario. L’anticorpo monoclonale, famoso per essere stato somministrato a Trump, è autorizzato al momento solo negli Usa ma dovrebbe arrivare presto anche in Italia: è approvato per infezioni Covid di media gravità e non si sa se funziona anche sui casi più gravi. È costoso, certo: ma anche la terapia intensiva lo è, ha precisato Pelanda.
Non dimentichiamo le “altre” patologie.
La preoccupazione per il Covid rischia di oscurare la situazione sanitaria generale. La mortalità per altre malattie è circa il doppio e tende a crescere sia perché molte persone evitano di andare nei pronto soccorso (grave rischio per le patologie cardiovascolari, soprattutto per l’infarto), sia perché si saltano o si rinviano gli screening preventivi (aumentato rischio per le patologie tumorali).
In conclusione:
è importante conoscere i rischi, comunicare senza banalizzare ma anche senza innescare eccessive paure, sollecitare la responsabilità dei comportamenti non per fare l’ennesimo appello al ruolo delle donne, ma per ripensare l’organizzazione della sanità. E più in generale l’organizzazione sociale. Se, come ha detto Sara Gandini, si può considerare “la differenza come fonte di sapere”, è da qui che può partire una strategia anche politica contro la pandemia.