La testimonianza di un’infermiera

Riportiamo uno scritto di Titti De Simone, infermiera in un ospedale pubblico lombardo. De Simone lo ha letto durante il suo intervento all’incontro online “In Memoria. Parole e musica per elaborare i lutti del virus” che si è svolto per iniziativa della Casa delle Donne martedì 30 giugno 2020.

La fine. O l’inizio. La morte è di vitale importanza. La natura in questo ci fa da maestra.
Per ogni fine c’è un nuovo inizio.
Noi infermieri ci troviamo spesso a confrontarci con quella che è la fine, o pare esserla.
Morte, malattia, disabilità. Ma ognuno di questi eventi va letto e reinterpretato in una prospettiva olistica, dove il tutto continua ad esistere, a reinventarsi. Dove i lutti vanno vissuti, elaborati affinché possano essere potenti lezioni di vita.
Emergenza Covid, i riflettori accesi sulla professione, quali eroi, i nostri diritti inesistenti, stipendi miserabili, responsabilità enormi.
Una classe dirigente che ha poco potere, poca rappresentanza, poca voce, verranno i medici a insegnare nelle università, tagliate le cattedre agli infermieri.
Un gruppo poco coeso, ognuno con le sue rivendicazioni. Una difficile, complicatissima relazione con gli altri gruppi professionali, noi infermieri, inascoltati, messi a tacere, ignorati.

È la fine? No, non lo è mai
Perché a volte sembriamo pazzi.
A chiedere l’ennesimo antidolorifico al medico che ti dirà “ci si abitui!”, come posso abituarmi al dolore di un altro essere umano? Mai non mi ci abituerò mai, mai!!!
A volere umanizzare le cure attraverso il tocco e la relazione in contesti che ti risucchiano anima e cervello perché devi correre, sei un numero e lo sono anche i pazienti. A sorridere, stringere, baciare. Chi combatte, chi non ce la fa più, chi ne ha il diritto. A parlare, discutere, ascoltare i colleghi, cercando strade, visioni, energie, obiettivi. A esporsi, con i propri pensieri, le proprie fragilità. A continuare ad essere ciò che sei, ciò che vuoi essere, nonostante tutto.

È la fine? No, è sempre un nuovo inizio. Perché noi sappiamo che alla fine di ogni turno, di ogni notte, per quanto possa essere stata dura, beh, noi sappiamo che sorge il sole. Sempre.
Anche quando il cervello non connette più dalla stanchezza e non riesci a muoverti. Sempre.
Sorge il sole. E sappiamo che torneremo in reparto.
Dove abbiamo visto morire il nostro paziente zero, quello che ti devasta e segna il prima e il dopo.
Dove ci siamo sentiti impotenti, frustrati, piccoli, stanchi, in balia degli eventi e delle decisioni di altri. Dove ci siamo dovuti scontrare con chi ti dice di continuare quando tu sai che non c’è più niente da fare, di chi ti dice che è così e basta, di chi non ti ascolta, di chi non considera il tuo punto di vista nel suo delirio di onnipotente autoreferenzialità.
Sappiamo che torneremo. E faremo sempre meglio. Affinando i nostri sensi, accogliendo, accompagnando, sostenendo, supportando, assistendo.

Per concludere vorrei regalarvi una frase di Rachel Naomi Remen, medica:
“L’aspettativa che possiamo essere immersi nella sofferenza e nella perdita tutti i giorni e non essere toccati da essa è realistica come pensare di passare attraverso l’acqua senza bagnarsi”.