Sentirsi minoranza è un’esperienza che va vissuta, non la si può sentir raccontare o tanto meno teorizzarla, con le parole piene di buoni sentimenti e buone intenzioni, fiere della propria democraticità, capacità inclusiva e al contempo di rispetto di ogni (ogni!) diversità. Anzi valorizzazione di tutte (tutte!) le differenze. Parole che perdono senso nel tempo, poiché troppo usate, parole diafane che sembrano smarrire la loro sostanza e colore nell’infinita ripetizione che diviene rituale. Non posso certo negare di aver abusato anch’io di questo uso lessicale e comportamentale, come altre e altri sono stata (sono) diventata abile nel reiterare e nel declinare nei più svariati modi l’assunto indiscutibile del valore della differenza, delle differenze nei miei discorsi, nel mio dire e fare. Ma sempre più provando il fastidioso sentimento del già detto e già sentito, della facile assunzione di una posizione inattaccabile da ogni critica.
Poi a un certo momento provo l’esperienza di essere io una minoranza, di sentirmi numero piccolo dentro un contesto in cui le altre donne con cui dialogo e che sono la maggioranza sono diverse, se pure tra loro dichiaratamente differenti, hanno un’appartenenza che le accomuna, anche quelle che questa appartenenza mettono in discussione.
Sono eterosessuale, bianca, di origine borghese, in buona salute fisica, psichica ed economica. Sono la rappresentante quasi perfetta – cioè socialmente accettata – della cosiddetta normalità, l’innocente (innocente?) portabandiera di quella neutralità invisibile – perché le norme veramente efficaci sono invisibili – che ha dimora anche tra le donne. Anche tra le femministe. Finché lesbiche, bisessuali, queer, donne nere, musulmane, donne deprivate di risorse economiche e culturali, donne – anche e semplicemente – più giovani, non mi hanno dipinto, nella mia supposta neutralità/universalità di un preciso colore, non mi hanno attribuito tutto il peso e la responsabilità della mia parzialità. Una parzialità plurale che disegna intorno a me e alle altre l’universo molteplice e irriducibile del sentirsi e dirsi donna. Ma questo lo sapevo, e lo scrivevo, già prima di oggi, ora l’ho vissuto.
Partecipo a un dialogo all’interno delle Lesbiche Fuorisalone, in cui viene presentato un libro, Dirsi lesbica. Assolvo il mio compito con la mia abituale precisione, mi sono preparata anche uno scritto e parlo, parlo, come le altre e con le altre. Ben conscia di essere una delle poche eterosessuali e riconoscendo intorno a me un contesto molto piacevole da vivere, ma senz’altro un po’ diverso dai miei abituali. Provo sentimenti contrastanti in cui prevalgono un sottile, ma da me percepibilissimo disagio, insieme a curiosità e interesse. Mi ci aggroviglio dentro un po’ in queste emozioni pur seguendo tutto lo scambio che avviene e ritrovandovi molte cose che anch’io penso e condivido. Non è questo il problema, se un problema c’è. Persiste infatti il disagio, un senso anche se lieve di estraneità che non vengono se non mitigati dalla condivisione dei contenuti, dalla simpatia e dal piacere anche fisico che provo stando tra queste donne.
Allora mi espongo. Faccio coming out, mi dichiaro eterosessuale, cerco di spiegare quello che provo, un po’ confusamente credo, ma vengo capita, me ne rendo conto dalle parole che seguono alle mie. Il mio malessere diminuisce, si alterna e si muta spesso in sensazioni di agio, anzi le due cose, incredibilmente e paradossalmente, riescono a convivere in me.
Mi resta in bocca il sapore di un’esperienza vissuta direttamente, la convinzione che la elaborerò di più in seguito, con lentezza o per lo meno con il tempo che mi ci vuole.
Vi ringrazio allora per l’invito e per l’occasione che mi avete offerto, care amiche lesbiche: il libro è molto bello, i vostri (nostri?) confronti mai banali. Tanto a cui pensare.
Barbara Mapelli