di Antonella Polisena.
ll primo giorno di lezione, l’insegnante di Women’s and Gender Justice della Columbia University di New York scrisse sulla lavagna:“Feminism is for everybody, activism isn’t”. Fu un gesto molto efficace: in chi già aveva idea di cosa significassero parole come “femminismo” e “attivismo” suscitò moti di approvazione o di disapprovazione.
In chi – invece- solo lontanamente intuiva il significato di quei termini, instillò la curiosità di indagare sulla differenza: tipo me.
Era il 2016, l’anno prima che il “me too” incendiasse i media e le piazze, ma soprattutto prima che facesse esplodere internet. Instagram era ancora il luogo virtuale dove l’utente medio faceva rimbalzare le piccole facezie della vita reale con foto di paesaggi, di gatti e di tavolini incorniciate in un bordino bianco.
Non era ancora un luogo dove le cose, invece, si fanno accadere.
Prima caratteristica dell’attivismo performativo è che accade sui social. Instagram non ne è solo mero palcoscenico o scenario, ma una vera e propria parte attrice che ne scandisce i tempi e ne sillaba le regole tramite il suo algoritmo. Che ne computa, soprattutto, il risultato.
Si dice performativo- infatti- quell’attivismo che ha come scopo primario il dispiegarsi di una performance, cioè un’attività che ha un ritorno sia di visibilità e di immagine, sia in termini economici. La performance verrà valutata – capitalizzata e monetizzata- in modi diretti (pubblicazione di libri, opinionismo televisivo) o indiretti (visualizzazioni, interazioni, sponsorizzazioni, advertising o anche semplice promozione di sé).
Si comporta come una nuova forma di divulgazione pop di temi sociali, con un’attitudine vagamente alla Andy Wharol: plastica, colorata, appariscente, bidimensionale, appiattita sullo schermo. Intercetta i temi sensibili del momento (che possono essere ecologismo, femminismo, Black Lives Matter…) per renderli esteticamente attraenti e confezionarli in grafiche accurate o immagini ricercate (un passaggio, questo, tragicamente necessario per chi mira a captare l’attenzione di un utente medio, durante lo “scrolling” di un social dove si trovano una massa enorme di contenuti).
Tuttavia, se intendiamo l’attivismo come una condotta attiva e collettiva volta a provocare un cambiamento, possiamo immediatamente notare una prima asimmetria: in che modo una narrazione, che narrazione rimane e per di più singolare ed egoriferita, può essere attivismo?
Quali sono gli strumenti di azione concreti e validi che ci propone? Ma soprattutto: dove sta l’azione?
Queste domande sono necessarie per fissare già un primo punto: l’attivismo performativo non è attivismo, non ne possiede le caratteristiche.
Potrebbe al più esserne la componente divulgativa, perché il suo grande pregio sta nella popolarità di cui gode, nella risposta emotiva che suscita. Con due enormi limiti: la (fastidiosa) mediocrità della forma che, nei testi con scopo di divulgazione, è di per sé già un contenuto e la semplificazione in slogan di questioni complesse per consentire una reazione social immediata e istintiva, espressa all’interno di un gruppo ristretto dove ogni componente, previamente targettizzato, la pensa grossolanamente allo stesso modo.
Ci viene così propinato un ragionamento semplificato, non sostenuto da tesi e antitesi ma da un’asserzione che miri al soddisfacimento di una certa verità più vicina possibile al comune sentire.
Come aveva previsto Neil Smelser nel suo “Manuale di Sociologia” che studia i movimenti rivoluzionari (oggi potrebbero essere il femminismo, l’ecologismo, l’antirazzismo) questi vengono recepiti dalla massa privi del loro significato sovversivo, a favore di un apprendimento più immediato che permetta, tramite lo slogan, un soddisfacimento immediato del proprio pubblico.
In questo modo il personale smette di essere politico, perché usa il politico per riflettere se stesso in un moto apparente di specchio-riflesso in cui tutti contribuiamo al gran vociare su un argomento senza assumerci il rischio di spostare alcunché.
E quell’argomento, mutilato della sua complessità nell’ansia di schierarsi dalla parte di una ragione social(mente) ammessa, resta statico negli schermi dei nostri telefoni senza avere eco alcuna nelle dinamiche della vita reale e politica.
Come ha detto Silvia Semenzin nella conferenza TEDxFerrara (https://youtu.be/D3CMeKfG8Ek), tramite i social l’attivismo diventa sempre più un lifestyle da comprare, allontanandolo dalla natura di pratica politica.
Quello che possiamo fare, dunque, il dovere che abbiamo, è quello di rendere l’adesione agli ideali del femminismo un esercizio quotidiano che ci spinga oltre l’esigenza di consenso e di like.
Che ci permetta di attivarci affinché il cambiamento sia reale e duraturo nella sua complessità. Anche oltre lo schermo.