di Grazia Longoni
“Un secolo fa le donne che lottavano in tutto il mondo per i loro diritti dovevano fare lunghi viaggi per incontrarsi. Oggi la tecnologia ci consente di collegarci tra donne di tutti i Paesi. Usiamola per andare avanti!”. Con queste parole, Kristín Ástgeirsdóttir, collegata da Reykjavik insieme a Sigríður Ingadóttir, ha concluso l’incontro internazionale organizzato dalla Casa delle Donne sabato 24 ottobre “Donne in politica, buone pratiche nel governo delle città: quale cambiamento?”, seconda parte di un confronto avviato il 30 novembre 2019 con le femministe spagnole impegnate nell’amministrazione di grandi città.
C’era di mezzo il Covid, tra i due incontri. Infatti mentre le tre spagnole erano tra noi, in uno Spazio da Vivere gremito, con tutta la fisicità della loro passione politica, le due islandesi parlavano da uno schermo di computer a un centinaio di donne, alcune con la mascherina in via Marsala, altre, più numerose, collegate via Zoom o attraverso la diretta Facebook. Eppure l’emozione è stata la stessa.
Punto di partenza dell’iniziativa è, come ha ricordato Paola Melchiori della Casa delle Donne, collegata dal Canada, la curiosità di noi italiane, che veniamo da un femminismo molto “movimentista” e poco interessato, se non ostile, alla dimensione istituzionale, per i risultati ottenuti nei Paesi in cui donne attive nei movimenti sono riuscite ad agire nei luoghi del potere politico e dell’amministrazione pubblica. Un altro punto, imposto dalla realtà della pandemia, è chiederci “come una leadership di donne può rendere visibile il tema- di solito invisibile – del ‘care’, di chi sostiene la vita”.
Kristín Ástgeirsdóttir, direttrice del centro per la Gender Equality all’università di Reykjavík, e in passato membro del Parlamento, ha fatto il punto sui risultati della battaglia per la parità di genere. Premessa generale: parliamo di un Paese (piccolo) in cui le donne hanno ottenuto il diritto di voto quarant’anni prima che in Italia, dove la quasi totalità lavora (83 per cento, in Italia il 53…) anche se metà sono single o separate, dove le tre leader del più grande sindacato sono femministe, dove nel 2013 è stata eletta una premier femminista lesbica e nel 2017 una rappresentante del movimento sinistra verde.
Kristín ha tracciato un quadro storico del movimento a partire dal famoso 24 ottobre del 1975 in cui il 90 per cento delle donne si sono astenute da ogni lavoro, in casa e fuori, per rivendicare la parità salariale. Una mobilitazione che si è ripetuta nel tempo a intervalli regolari, per denunciare la lentezza con cui questo gap si chiudeva. Ma nuovi obiettivi sono stati via via aggiunti all’agenda e conquistati grazie alla Women’s Alliance, il partito femminista che ha operato tra il 1983 e il 1999: i servizi di cura, le case rifugio per le vittime di violenza, i centri contro gli abusi sessuali.
Gradualmente il movimento, da una posizione di sinistra anticapitalista ha aperto, nei primi anni Duemila, anche a un “femminismo culturale” con focus sulla cultura patriarcale, affrontando le questioni del controllo e dell’uso del corpo femminile, i diritti Lgbtqi, i temi ambientali, la pace e il nucleare, le politiche familiari.
Uno dei maggiori successi è stata, nella primavera 2019, la legge sul congedo parentale: tre mesi obbligatori sia per la madre sia per il padre, più altri tre a scelta della coppia, con la prospettiva di ampliarli (5 più 5 più 2) dal prossimo gennaio. Uno dei tanti elementi che si riflettono sulla fertilità: 1,71 figli per donna contro una media europea di 1,55 e una italiana di 1,39.
La mobilitazione delle donne ha ottenuto importanti risultati nella rappresentanza politica, in linea con gli altri Paesi del Nord Europa: tre su quattro hanno una premier donna, anche se non sempre femminista. La presenza delle donne nel Parlamento islandese, che nel 1971 era del 4-5 per cento, ha superato il 50 per cento. Dati simili anche per le istituzioni locali. Il valore simbolico della parità di genere trova conferma anche nella Chiesa luterana, con due terzi dei vescovi donne.
Ma sul piano del potere ci sono questioni aperte anche lì. “Le donne sono ancora in minoranza alla guida delle aziende nonostante dieci anni di legge sulle quote” ha detto Kristín, “il gap salariale è lento a ridursi, tuttora il divario è del 15 per cento, sul lavoro ci sono ancora stereotipi, abbiamo fatto passi avanti nella parità di cura dei figli ma il lavoro domestico è ancora prevalentemente svolto dalle donne, la presenza femminile sui media è solo del 30 per cento”. Preoccupa la violenza contro le donne, cresciuta dell’11 per cento, secondo dati ufficiali di polizia, durante il periodo pandemico.
Anche Sigríður Ingadóttir, capo economista del potente sindacato dei dipendenti pubblici, già membro del Parlamento, attiva nella Social Democratic Alliance (il partito socialdemocratico in cui nel 2000 è confluita circa metà della Women’s Alliance), comincia dal potere. Il governo in carica dal 2017, guidato da Katrin Jacobsdottir del movimento sinistra-verde, un governo di coalizione di cui fanno parte anche il centro e la destra ma non i socialdemocratici, ha altre tre donne nei ministeri della salute, della giustizia e dell’educazione. “Non sono a favore di questo governo, ma sono contenta che le donne ci siano” dice Sigríður. E alla domanda dal pubblico se tra donne di sinistra e di destra ci sia collaborazione o conflitto, entrambe le interlocutrici sottolineano l’ampia convergenza sui temi della Gender Equality. “Si differenziano però sui modi per ottenerla, da destra puntando sulle privatizzazioni, da sinistra sul settore pubblico e il welfare” precisa Sigríður.
Interessanti gli spunti di Ingadóttir sugli effetti della pandemia Covid. In generale, l’Islanda ha finora avuto buoni risultati, con circa 4300 positivi e “solo” 11 morti. Un dato legato alla scarsa popolazione dell’isola e soprattutto alla chiusura delle frontiere e al blocco quasi totale del turismo, settore chiave dell’economia, dove è molto aumentata la disoccupazione femminile. Hanno invece tenuto meglio gli impieghi nel settore pubblico, soprattutto sanità ed educazione dove sono donne tre su quattro dipendenti.
Qui l’era Covid apre una nuova sfida per le tre leader femministe del sindacato. “Si tratta di rivalutare il lavoro delle donne nella sanità e nella scuola, di meglio remunerare le infermiere, di garantire sicurezza alle donne negli ospedali, nelle scuole e nelle case” dice Sigríður. Uno slogan del 1975 è ancora attuale: “La gratitudine non porta cibo nei nostri piatti”. Lo sarebbe anche da noi, a proposito delle “eroine” della cura.
“Se gli investimenti post Covid andranno al settore pubblico, soprattutto in scuola e sanità, questo sarà anche un vantaggio per le donne”, dice ancora Sigríður. “Circolano anche idee maschili su come rilanciare la nostra economia, per esempio costruendo strade e infrastrutture per cui dovremmo addirittura importare manodopera”.
Tante le domande dal pubblico: sul rapporto tra movimenti ambientalisti e movimento delle donne, sui collegamenti con altri Paesi del Nord Europa, sulle madri single, sull’uso positivo che in Islanda è stato fatto delle Convenzioni internazionali sui diritti delle donne. Una in particolare: come definite il femminismo? “Il modo di uscire da una tossica cultura patriarcale che non è un buon sistema né per le donne né per gli uomini” (Sigríður). “La libertà di scegliere chi vuoi essere” (Kristín).
Nelle conclusioni, Paola Melchiori ha sottolineato come molte buone pratiche femministe tra Spagna e Islanda ci diano l’idea di come è possibile cambiare le cose dal punto di vista della condizione delle donne. Come ricordava Eva Alfama, assessora al femminismo e Lgbtqi di Barcellona, nel nostro incontro precedente: “Stare in luoghi istituzionali ci serve per sperimentare, non per prendere il potere, ma per sapere come ripensare la realtà”.
Questo ha un impatto reale e simbolico importante: un discorso femminista aperto e concreto, non minoritario, in cui è cruciale il ruolo di donne femministe al potere e in cui si possono organizzare azioni comuni anche tra donne di diverse appartenenze politiche, a volte in conflitto con i rispettivi partiti. Interessante anche la forza che le donne sono riuscite a trarre dalle Convenzioni internazionali sui diritti che anche l’Italia ha firmato, ma con scarse conseguenze. Infine, il tema degli investimenti per rilanciare le economie dopo la pandemia: tutte le donne dovrebbero, anche con alleanze trasversali, riuscire a imporre misure, occupazione e investimenti pubblici, che garantiscano la visibilità, l’impiego, il riconoscimento del lavoro in quelle aree, in genere femminili o femminilizzate, che accompagnano la vita e ne garantiscono la qualità: dall’educazione alla salute, all’invecchiamento, alla qualità del morire. Si tratta di tutta l’area della cura: lavori necessari, invisibili, sottostimati e sottopagati di cui la pandemia ha mostrato l’estensione, l’importanza, e la sottovalutazione.
Ci siamo lasciate con grande calore, nonostante schermi e mascherine, dicendoci che non solo è importante conoscerci, riflettere insieme, cooperare. Ma che il confronto diretto tra donne di tutto il mondo dà a ciascuna di noi una grande forza.