Ci sembra importante far conoscere questo articolo di Maryam Aldossari*, pubblicato in inglese sul sito di Al Jazeera il 4 gennaio 2024. Per quanto siano passati molti mesi, e l’attuale condizione in cui vivono le donne sopravvissute a Gaza sia di molto, gravemente, peggiorata rispetto a quella cui lei accenna, pensiamo che le questioni discusse da Maryam siano ancora attuali e non siano in alcun modo trascurabili.
L’argomentata critica di Maryam a buona parte del femminismo del suo paese (Gran Bretagna) e in generale europeo per le sue posizioni e “non-posizioni” rispetto alla guerra a Gaza ci coinvolge. Anche perché come Casa delle Donne di Milano e Gruppo Gaza della Casa delle Donne abbiamo cercato nel nostro agire e nelle nostre proposte di non trascurare, anzi di tener presente e rispondere agli interrogativi espliciti e impliciti da lei posti.
Siamo ben consapevoli che su questi temi tuttora le socie della Casa hanno posizioni diverse. Speriamo che la pubblicazione dell’articolo (da cui abbiamo stralciato alcune parti che ci parevano ripetitive**) contribuisca a rendere il nostro dibattito più sincero, preciso, consapevole e trasparente.
(Paola Redaelli)
Come molti altri nel mondo, sono ormai svuotata di ogni emozione. Passo la maggior parte del tempo in cui sono sveglia ad analizzare le notizie, a leggere di una tragedia dopo l’altra e a desiderare che l’implacabile guerra a Gaza finisca una volta per tutte. Anche fisicamente sono stremata. Passo i miei weekend a manifestare, spinta dalla disperata speranza che forse, se un numero sufficiente di noi scendesse in strada e parlasse, le nostre voci unite potrebbero spingere chi ci governa a chiedere finalmente un cessate il fuoco permanente.
Ma oltre a questo esaurimento fisico ed emotivo, sono anche consumata da una profonda rabbia, una profonda delusione nei confronti delle femministe – e non solo del mio Paese, il Regno Unito –, che sembrano completamente disinteressate alla sofferenza delle donne di Gaza.
Ogni giorno mi imbatto in articoli e post sui social media di femministe che condannano giustamente le azioni vergognose di Hamas nei confronti delle donne israeliane durante l’attacco del 7 ottobre e il trattamento che è stato successivamente riservato alle donne prese in ostaggio. Si tratta di analisi e riflessioni assolutamente incontestabili e senza dubbio necessarie. Crimini così gravi contro donne e ragazze, contro chiunque, non dovrebbero mai essere ignorati, scusati o dimenticati.
Eppure, proprio queste persone, che si autodefiniscono femministe, tacciono sulle azioni altrettanto gravi che Israele compie contro le donne palestinesi.
L’assedio quasi totale [ndr: siamo a gennaio 2024] di Gaza e i bombardamenti indiscriminati di Israele hanno già ucciso, mutilato e sepolto sotto le macerie decine di migliaia di donne e bambini palestinesi. In decine di migliaia sono stati sfollati e lasciati a loro stessi nel tentativo di sopravvivere al rigido inverno senza un riparo adeguato e senza rifornimenti. A Gaza, il crollo quasi totale del sistema sanitario, unito alla mancanza di cibo e acqua pulita, espone circa 45.000 donne incinte e 68.000 madri con i loro lattanti al rischio di anemia, emorragie e morte. Nel frattempo, centinaia di donne e bambini palestinesi nella Cisgiordania occupata sono in prigione, molti senza processo, e cercano di sopravvivere in condizioni abominevoli.
Questa catastrofe è sotto gli occhi di tutti, eppure la maggior parte delle femministe in Gran Bretagna, e più in generale in Occidente, sembra non avere nulla da dire al riguardo.
Perché ciò che accade alle donne palestinesi viene ignorato? Perché le lotte delle donne e dei bambini palestinesi sembrano non meritare la stessa attenzione che riserviamo ad altre?
Sempre più spesso sono portata a credere che non si tratti solo di scarsa attenzione, ma piuttosto di voluta cecità conseguente alla rottura irreparabile della bussola morale che dovrebbe guidare il nostro agire.
Negli ultimi tre mesi ho riflettuto a fondo su queste questioni. Mi sono immersa in numerosi testi “femministi” di autrici che un tempo stimavo molto, per cercare di capire che cosa sia per loro il femminismo e perché esso sembri non riguardare le donne palestinesi.
A poco a poco ho capito che, secondo il loro “femminismo”, ad opprimere le donne palestinesi siano in primo luogo non Israele o altre forze straniere, ma gli uomini palestinesi. Secondo loro, le donne palestinesi hanno poca o nessuna capacità di agire autonomamente e sono le eterne vittime di una società che ha nel suo DNA la violenza di genere. Pertanto, esse ritengono che tutti gli uomini palestinesi, in quanto tali, siano adepti di gruppi profondamente patriarcali, religiosi e socialmente conservatori come Hamas, noti per opprimere le donne. Così, queste “femministe” si bevono le affermazioni di Israele secondo cui la guerra a Gaza aiuterà a “liberare” le donne palestinesi dalle grinfie di Hamas, e ignorano i gravissimi danni che essa ha inflitto e sta infliggendo loro.
Questo forma di femminismo è coerente con un modello interpretativo della storia a dir poco sconcertante: è un femminismo intriso di pregiudizi e preconcetti coloniali e imperiali. Le “femministe” di questo tipo hanno sostenuto l’invasione statunitense dell’Afghanistan perché si supponeva che mirasse a “liberare le donne afghane”, ma non penserebbero mai di sostenere la necessità di “liberare” con la forza, ad esempio, le donne ebree che vivono in comunità rigidamente patriarcali e religiose in Israele.
L’empatia e l’indignazione di queste “femministe” non hanno nulla a che vedere con i principi fondanti del femminismo e con il desiderio che tutte le donne acquistino consapevolezza e controllo di sé e del proprio agire. Sono coerenti soltanto con le loro identità personali e le loro affiliazioni politiche. Ciò si traduce in una scala gerarchica che mette al primo posto alcune battaglie femministe – e in particolare quelle rivolte contro gli uomini musulmani e con la pelle scura – rispetto ad altre, consentendo che il discorso sulla liberazione delle donne venga fatto proprio, per raggiungere i suoi obiettivi, da chi ha il potere, spesso a scapito degli oppressi.
Ma il silenzio delle “femministe” occidentali sulla necessità di un cessate il fuoco a Gaza è un errore non solo un morale, ma anche politico. Perpetua un tipo di “femminismo” coerente con le strutture di potere coloniali e imperiali che, come la storia dimostra, hanno prodotto solo disastri con la scusa di “proteggere” qualcuno.
Insomma: un moderno “femminismo coloniale”, la cui retorica sulla “liberazione delle donne” nasconde atti di violenza profondi. Le invasioni e le occupazioni vengono pretestuosamente mascherate come “aiuti”; le donne palestinesi vengono descritte come povere vittime bisognose di soccorso e si nega che esse abbiano il diritto di resistere. In definitiva, l’empatia selettiva di queste “femministe” occidentali serve a rafforzare le strutture di potere che perpetuano il ciclo della violenza.
Altre femministe giustificano il loro rifiuto di chiedere un cessate il fuoco a Gaza motivandolo con la posizione della società palestinese nei confronti dei diritti LGBT: Hamas imprigiona o fa di peggio alle persone LGBT, quindi la guerra dovrebbe continuare finché quell’organizzazione non sarà eliminata del tutto.
Questo ragionamento non tiene conto di un elemento cruciale, spesso sottolineato da una parte del pensiero femminista: l’intersezionalità. Sebbene le difficoltà cui deve far fronte la comunità LGBT nella Gaza governata da Hamas siano davvero numerose e rilevanti, usarle come pretesto per astenersi dal chiedere un cessate il fuoco immediato elude la più ampia crisi umanitaria in corso: non solo non tiene conto dei bisogni pressanti di migliaia di donne e bambini ma è anche indice di una preoccupante tendenza all’“empatia selettiva”. Infine, ignora il fatto che la guerra di Israele sta uccidendo e mutilando anche i palestinesi LGBT. […]
Rifiutando di chiedere il cessate il fuoco per questi motivi, queste femministe pongono, forse senza rendersene conto, la purezza ideologica al di sopra dell’urgente necessità di fermare ulteriori perdite di vite e sofferenze. Rinunciano a sostenere i diritti e la dignità di tutte le donne e dei gruppi vulnerabili, indipendentemente dal loro background o dalle complessità dei contesti sociali in cui si trovano a vivere. […]
Infine, ci sono anche femministe che rimangono in silenzio sulla questione perché vogliono rimanere “neutrali” su un tema “complesso”. Questa posizione è quella che forse mi lascia più perplessa e mi fa infuriare più di ogni altra.
Di fronte a un terrore così travolgente, non ci può essere neutralità. […]
Maryam Aldossari
*L’autrice è senior lecturer in Human Resource Management and Organisation Studies alla Royal Holloway, University of London. Le sue ricerche riguardano le disuguaglianze di genere in Medio Oriente.
**L’articolo originale del quale Aldossari ci ha dato il nulla osta per la pubblicazione può essere letto all’indirizzo https://www.aljazeera.com/opinions/2024/1/4/for-feminists-silence-on-gaza-is-no-longer-an-option