di Xina P. Veronese.
“scrivimi come vittoria nell’incenso…”
Dareen Tatour*.
In ogni parte del mondo il genocidio del popolo palestinese (come altrimenti potremmo chiamarlo?) ha stimolato reazioni individuali e collettive di protesta.
Un corpo compatto, anche se eterogeneo, si è unito nel condannare il colonialismo dello stato israeliano, perpetrato nel tempo e sfociato nella carneficina attuale.
Questo corpo si è riversato nelle strade e nella geografia reticolata del web.
Ogni sabato abbiamo manifestato a fianco del popolo palestinese a Milano.
Abbiamo raccolto ogni notizia che coraggiosamente ci veniva spedita dai Territori Palestinesi Occupati.
Per ogni corpo straziato, per ogni bambino dal viso impastato di lacrime e terra, per ogni donna che conteneva nelle sue braccia l’incommensurabile dolore di aver perso un figlio, noi abbiamo pianto. Urlato silenziosamente, in profondità interiori spesso anestetizzate dal quotidiano.
Abbiamo fatto da eco alle notizie, non facendoci spaventare e fermare dalla violenza verbale e psicologica che ci tacciava di antiebraismo, antisemitismo, ci accusava di essere persone che volgevano le spalle a tutto il dolore provocato dalla Shoah.
Siamo stati chiamati “fiancheggiatori dei terroristi” in spregio di ogni contestualizzazione storica.
Quando la parola genocidio era un flebile sussurro abbiamo alzato la voce facendo stonare il coro dei mercenari e la narrazione dei fatti allineata alla peggiore propaganda sionista.
Mentre il mondo veniva spinto ad abbracciare una visione semplicistica e dualistica di “bene e male”, pilotata dalle scelte politiche del momento, abbiamo sentito il bisogno di dare risposte al buco nero che quanto accadeva ci stava scavando dentro.
Quindi, alla notizia di una tregua, domenica 19 gennaio 2025, non abbiamo potuto che posizionarci al fianco dei bambini palestinesi gioiosi che saltavano e ballavano, delle donne che tiravano un atteso respiro, dei giornalisti che si toglievano il giubbotto antiproiettile con scritto Press (poco rispettato visto i 205 colleghi uccisi). In quel momento non potevamo che condividere, sentirci ancora una volta porzione, seppur marginale, seppur minimale e geograficamente lontana, della Storia di questo popolo resiliente e resistente.
Molte di noi hanno invece deciso di recarsi a sentire un dibattito pubblico organizzato da donne e uomini e di origine ebraica. O a vedere un documentario, realizzato nonostante le difficoltà estreme.
Abbiamo fatto tutto ciò perché proprio questa attenzione, questa ricerca continua di leggere attraverso il presente, al di là delle frasi stampate sui media e degli imbonitori televisivi, costituisce il nostro piccolo, millesimale contributo alla resistenza palestinese: non fare abbassare mai il livello di attenzione e il livello di guardia sulle nefandezze in corso. Utilizzando i semplici strumenti di analisi che il nostro background politico e culturale e le esperienze pregresse ci consentono.
Le dichiarazioni di Netanyahu e di tutta la sua truce brigata fanno percepire orizzonti purtroppo non rosei; nei loro discorsi c’è palesemente il desiderio di portare a termine l’azione genocidiaria nei confronti del popolo palestinese e l’invasione della sua terra. L’attesa strategica è quella di nuove armi e di nuovi (nuovi per modo di dire) alleati potenti.
I giorni successivi all’acclamata tregua (un fragile cessate il fuoco tra il gruppo islamista Hamas e Israele) il conflitto si è subito spostato in Cisgiordania.
Il 21 gennaio l’esercito israeliano e lo Shin Beth (l’agenzia d’intelligence israeliana per gli affari interni) hanno avviato un’operazione militare denominata “Muro di ferro” in cui è coinvolta anche l’aviazione, nella città palestinese di Jenin, nel Nord della Cisgiordania. La sera del 21 gennaio si contavano già 9 morti palestinesi e 35 feriti.
Ricordiamo anche che il 20 gennaio, le sanzioni imposte dall’amministrazione Biden contro i coloni estremisti sono state annullate da Trump, lasciando ancora più spazio alla violenza di questi individui, che altro non sono che la ‘faccia brutta’ della stessa medaglia sul cui fronte c’è il volto patinato e socialmente spendibile di coloro che pubblicizzano la striscia di Gaza come “un fantastico luogo fronte mare, con un clima delizioso”.
Allora, al di là dell’orizzonte, che cosa si delinea veramente per questo popolo che già ha subito anni/anni /anni e anni di oppressione e di apartheid?Possiamo noi, mantenendo vivo il movimento di controinformazione, di dibattito, di boicottaggio e di solidarietà aiutare a profilare un futuro diverso?
La mia risposta è: dobbiamo. Con amore, rabbia e speranza.
*Dareen Tatour è una poetessa e fotografa palestinese che abita in Israele e che scrive nella sua madrelingua, l’arabo.
**Le due foto di manifestazioni a Milano che illustrano l’articolo sono di © Isabella Balena