Eccoci nel nuovo anno col consiglio di leggere i romanzi di Han Kang, di cui presentiamo per ora tre recensioni. L’autrice sudcoreana ha ricevuto quest’anno un meritato premio Nobel per la letteratura. Ha pubblicato raccolte poetiche e parecchi romanzi, sia riferiti a episodi tragici della storia del suo paese, sia incentrati su vicende personali di particolare difficoltà e sofferenza, o di rifiuto di norme sociali oppressive. Con uno stile cristallino che sa fotografare in modo lirico anche i minimi movimenti e sfumature dei personaggi umani e animali e della natura, l’autrice costruisce narrazioni che oscillano tra la realtà e il sogno, tra la vita e la morte, approfondendo il tema universale del male di vivere e delle tragedie storiche, con qualche apertura di speranza e di comunicazione.
Il suo primo e più noto romanzo è stato “La vegetariana”, (pubblicato in coreano nel 2007, ediz it. Adelphi 2016), storia di una donna che improvvisamente, partendo da una condizione di opaca e oppressa normalità, mette in atto un radicale rifiuto delle convenzioni sociali, della carne, del cibo, della violenza, del potere patriarcale e della vita animale stessa, mentre si identifica sempre più nella condizione delle piante, che vivono di sola luce. La protagonista resta incompresa e viene considerata folle. Sullo sfondo, ardono le fiamme verdi e selvagge dell’energia primordiale, da cui si origina la vita vegetale.
Il romanzo “Atti umani” (tradotto e pubblicato da Adelphi nel 2017) s’incentra sulla brutale repressione delle manifestazioni di protesta tenute a Gwangiu, nella Corea del Sud. L’esercito governativo ha massacrato in quei giorni del 2008 oltre duemila manifestanti, i cui corpi sono rimasti abbandonati.
Diversi testimoni – tra cui l’anima di una delle vittime – si alternano nel romanzo a rievocare i tragici fatti avvenuti e le loro conseguenze sui sopravvissuti. Anche il successivo romanzo “Non dico addio” (Adelphi 2024) ripercorre in forma a volte onirica i massacri, le torture e le persecuzioni di molte migliaia di persone, considerate “comuniste” o fiancheggiatrici, avvenute nella Corea del Sud tra il 1948 e il 1950. Tre donne tenaci non intendono dimenticare questi fatti, cercano di ritrovarne le tracce e non possono dare alle vittime un addio definitivo. Nei due romanzi, la luce delle candele mantiene viva una traccia di umanità e di calore nel gelo della morte e dell’inverno.
Il romanzo “L’ora di greco” (Adelphi 2023) è un testo intenso, pieno di osservazioni raffinate e sensibili e ricco di riferimenti culturali. Narra la scoperta di forme insolite di comunicazione tra una donna sordomuta completamente afasica, che segue tramite la lettura del labiale un corso di greco antico, e il suo insegnante, che sta progressivamente perdendo la vista. La lingua ellenica antica, a Seoul, fa da tramite tra persone che sarebbero recluse nella propria disabilità e innesca un processo che sfocia in una relazione profonda e intima.
Continuate a mandarci i vostri contributi all’indirizzo librarsi@casadonnemilano.it
La vegetariana
di Han Khan,
trad. it. Adelphi 2016
Le radici del rifiuto della carne, del cibo e della vita animale
E’ un testo straordinario, aperto al mistero e a un lucido orrore; una discesa ai confini della vita e del nulla, per quanto illuminata da un’esuberante luce di fuoco verde, energia primordiale ambivalente del mondo vegetale e forse del cosmo. La protagonista – che conosciamo solo attraverso gli occhi e la prospettiva degli altri: il marito, il cognato e infine la sorella- è una giovane donna coreana come tante, dalla vita passiva e monotona, che rompe le routine quotidiana con una scelta intransigente di rifiuto della carne e poi attraversa un percorso di smaterializzazione, isolamento e distacco radicale dalla società e dalla famiglia, dal cibo e dalla vita (almeno di quella animale).
Si avvicina alla morte per consunzione, si identifica progressivamente con gli alberi e con la terra. Al tema della scelta vegetariana e al rifiuto delle convenzioni che gravano sulle donne, coreane e non, si unisce il tema di quella che potremmo chiamare una forma grave di anoressia, se non avessimo ritegno a chiudere in una diagnosi medica la volontà assoluta di autodissoluzione della protagonista. La scelta necessitata della donna è il rifiuto integrale della carne, del nutrimento e della vita umana: che cosa innesca questa negazione? L’intollerabilità della vita dominata dal patriarcato e da convenzioni assurde? Da questo mondo che trasuda sangue, violenza e potere malato? Da relazioni con persone che non possono e non vogliono comprenderla? Della violenza primaria insita nella civiltà umana, che ha prodotto gli orrori storici narrati in altri romanzi dell’autrice? Dal libro esce un grido forte di denuncia che non si lascia esaurire in una sola interpretazione. Kang è maestra dell’esplorazione del male storico e del male di vivere, in varie forme. Il romanzo di Khan, breve e intenso, si articola in tre parti.
Prima parte: La vegetariana.
Yeong-hye, giovane donne e moglie apparentemente insignificante, docile nello svolgere i suoi compiti, immutabile e passiva, fa un sogno strano, orribile, dominato da una massa carnosa piena di sangue; l’incubo le lascia un senso di panico, un peso che le blocca il respiro. Nella vita quotidiana manifesta una sola anomalia: rifiuta di indossare il reggiseno. E’ una protesta contro una norma sociale perbenista e repressiva o la volontà di esporre la pelle del petto alla luce e di nutrirsene, come fanno le foglie delle piante? Il mediocre marito non capisce nulla e racconta in modo critico le successive fasi della strana metamorfosi della moglie, partendo dalla sua scelta improvvisa: distrugge tutta la carne presente nel frigorifero di casa, diventa vegetariana e si toglie dalle incombenze domestiche.
Yeong-hye pare inafferrabile nelle sue ragioni. Il marito la rimprovera, la disprezza, ma lei è disgustata dalla “puzza di carne” di lui. Anche la famiglia e la società non la capiscono, la criticano e la isolano. Il padre durante un pranzo di famiglia tenta invano di forzarla a mangiare carne e le infligge uno schiaffo per punizione: riaffiorano nella donna i ricordi di altri colpi subiti. All’insignificanza monotona della sua vita di figlia e moglie docile e sottomessa si aggiunge la violenza. Nella crisi familiare scatenata dal rifiuto di accettare la sua scelta vegetariana si profilano scelte suicide, per lei e per altri.
Seconda: La macchia mongolica
La macchia mongolica è una voglia bluastra pigmentata che compare a volte sul corpo dei neonati, più spesso nelle popolazioni mongoliche, tra i discendenti di Gengis Khan. Secondo un’interpretazione tradizionale la macchia è l’impronta dello schiaffo sulle natiche che si dà al bambino nei primi istanti per farlo respirare. Di solito questa macchia scompare presto con la crescita, ma Yeong-hye inspiegabilmente la conserva ancora in età adulta, sulla natica sinistra. Il marito della sorella di Yeong -hye, artista visivo attratto dalla pittura sui corpi, ne è ambiguamente affascinato.
Tra volontà di creazione artistica ed erotismo acceso dipinge il corpo della protagonista cospargendo la sua pelle di fiori meravigliosi dai colori vividi e brillanti. Lei lascia fare, sembra gradire questa forma di vegetalizzazione pittorica. Ma il suo distacco dall’esistenza comune prosegue e la espone a giudizi sommari di follia. Anche la vita del cognato deraglia.
Terza: Fiamme verdi
Parla la sorella di Yeong-hye, dal nome simile: In-hye, anch’essa donna oppressa dal marito (il cognato di prima), da cui poi si separa. Yeong-hye, dopo molti gesti incomprensibili agli altri, fugge per un periodo verso una foresta dove trova pace a contatto con gli alberi. Quando rientra, la sorella tenta di aiutarla a uscire dalla sua malattia, o follia; le offre i cibi che le erano più graditi prima e non comprende il suo tenacissimo rifiuto di nutrirsi; infine l’unica soluzione le pare quella di farla internare in un reparto psichiatrico ospedaliero.
Le cure sono tutte inutili; la sorella si avvicina a lei ma non riesce a capirla. Yeong-hye si lascia dissolvere in una incoercibile forma di autodistruzione. Sembra che voglia andare sempre più a fondo nel suo rifiuto di tutto ciò che è carneo, materiale e violento, fino a immedesimarsi con la natura dei vegetali e delle piante: esse possono vivere solo di luce e infine si dissolvono nella Terra. La volontà di identificarsi con le e piante, che vivono di luce, si fa sempre più esplicita.
La protagonista fugge dalla clinica in cui è ricoverata e si rifugia in un bosco; al suo ritorno si mette a testa in giù, convinta che le piante abbiano nelle radici una sorta di cervello. La sorella si oppone invano alle cure più dure che le vengono praticate nel ricovero ospedaliero. Yeong-hye, molto debilitata, infine sembra immersa in una totale incoscienza e immobilità, ma si ribella con estrema energia quando la sua volontà viene calpestata. I tentativi di nutrire la donna, ormai ridotta a una larva, con un sondino nasogastrico provocano una gravissima emorragia che richiede il ricovero immediato nell’ospedale generale di Seul. La sorella che si mette contro il personale sanitario viene considerata anch’essa instabile mentalmente.
Nell’enigmatico finale, le due sorelle viaggiano insieme a bordo dell’ambulanza che trasporta Yeong-hye, in fin di vita, verso l’ultima meta. Le immagini degli alberi popolano i sogni e le visioni reali dei paesaggi che le due donne attraversano. In-hye si sente in colpa perché per la prima volta ha lasciato alla vicina di casa (forse per sempre?) il figlio bambino e in un soffio confessa alla sorella che anche lei fa sogni incentrati sugli alberi e sulla dissoluzione.
“Gli alberi sul ciglio della strada sono sfolgoranti di luce, un fuoco verde che ondeggia come i fianchi di un animale imponente, feroce e selvaggio. In-hye fissa accanitamente gli alberi. Come se attendesse una risposta. Come se protestasse contro qualcosa. Lo sguardo nei suoi occhi è cupo e insistente.”
Nel libro affiora una ricerca di liberazione radicale dai mali dell’esistenza, dalle relazioni sociali, dalla carne, dalla violenza, dal potere, dalla vita animale e forse dalla materia stessa, con momenti di illuminazione e di assurdità. Chi legge è sollecitato a indagare il fondo della vita, ripercorrendo miliardi di anni di evoluzione fino alle piante e alle loro foglie e radici; gli elementi vegetali tornano al suolo per decomposizione e la terra si dissolve nell’energia primordiale della luce.
Vittoria Longoni
P.S. La lettura di questo libro perturbante mi è stata illuminata dal talento linguistico, narrativo e concettuale della scrittrice. Per avere una prospettiva più positiva, subito dopo il romanzo di Khan ho letto il bel saggio della giornalista scientifica Zoe Schlander “Le mangiatrici di luce – Il mondo invisibile dell’intelligenza delle piante” Einaudi 2024.
Una doppia lettura, una doppia immersione nel mondo vegetale: nel romanzo di Khan si va verso un “cupio dissolvi” che allude solo in negativo a una speranza di liberazione e al fuoco di un’energia primaria; nel saggio della giornalista scientifica troviamo il resoconto di molte ricerche scientifiche e naturalistiche, un’indagine tenace sulla vita misteriosa e fortissima delle piante, che sanno formare materia nutrendosi di luce, conoscono forme straordinarie di comunicazione, sentono, vedono, comprendono, agiscono in una forma non umana eppure vicina a noi. In molti punti di questo resoconto di esperienze ed esplorazioni, condotte in laboratori e in diversi ambienti naturali in dialogo con scienziate e ricercatori di tutto il mondo, incontriamo fatti, intuizioni e ipotesi che vanno oltre il paradigma darwiniano della lotta feroce per l’esistenza.
Atti umani
di Han Khang,
trad.it. Adelphi 2014
Vivi e morti raccontano un massacro compiuto dall’esercito sudcoreano nel 2008
“Atti umani” è un racconto corale di vivi e di morti. Sono vivi e morti reali. Siamo a Gwanjiu, città della Corea del sud e luogo natale della scrittrice, dove il 18 maggio del 1980 sono stati uccisi dai militari più di duemila civili che si erano opposti al regime autoritario instaurato da Chun Doo-hwan. Era stata una resistenza spontanea, nata dagli studenti universitari ma dilagata presto tra i cittadini, soprattutto i più giovani. Nel libro di Han Kang questa storia recente si trasforma in storia universale, dove le voci sono quelle di tutti coloro che si sono opposti a regimi autoritari che volevano sopprimere la libertà e la dignità delle persone.
Questo non è un racconto storico, è un racconto letterario che utilizza una prosa intensamente poetica e capace di descrivere la morte e il massacro con lucida esattezza, con parole essenziali e immagini potenti. “I nostri corpi furono accatastati uno sopra l’altro a forma di croce. Il corpo di un uomo che non conosco venne gettato di traverso sulla mia pancia (..) Quando gettarono un sacco di paglia sul corpo dell’uomo più in alto, la torre di corpi si tramutò nel cadavere di qualche enorme bestia immaginaria, con decine di gambe che sbucavano da tutte le parti”.
Sono sei le storie che vengono raccontate, sei punti di vista di persone coinvolte in modo diverso nel dolore collettivo: il coraggioso ragazzino Dong-ho ucciso dai militari, il suo giovane amico studente di liceo pure lui ucciso , una redattrice che lotta – inutilmente – contro la censura, un prigioniero torturato per giorni con ”una comunissima biro, una Monami nera” e che continua a portare nel suo corpo il ricordo dello strazio, una’operaia che faceva parte del sindacato e che anche dopo anni non riesce a raccontare, a testimoniare perché “il momento in cui i contorni della sofferenza acquistano chiarezza, diventano un’evidenza più fredda e più dura di qualsiasi incubo”. Infine c’è la mamma di Dong-ho che partecipa alle manifestazioni delle madri dei ragazzi uccisi e che si ricorda le passeggiate lungo il fiume con il figlio ancora bambino: “.. non ti piacevano i posti all’ombra, dove gli alberi coprivano il sole. Quando volevo camminare lì per sfuggire il calore, mi tiravi per il polso con tutte le tue forze, portandomi di nuovo verso la luce: perché camminiamo al buio? Andiamo laggiù dove sbocciano i fiori”.
In queste storie, sempre narrate al presente anche se non si svolgono nello stesso periodo di tempo, cambia l’io narrante: in alcuni si parla in prima persona, in altri ci si rivolge con il “tu”, in altri con il “noi”, coinvolgendo così su piani diversi il lettore.
“Parlare di dolore per me è parlare di umanità” ha detto Han Kang in un’intervista. Gli atti umani del libro sono quelli della pietà verso i morti, della solidarietà e della coscienza della propria dignità, ma anche quelli della spietatezza, della brutalità e crudeltà. Ci vengono mostrati in modo impietoso pieghe e anfratti dell’animo umano difficili da guardare e di fronte ai quali si vorrebbe solo chiudere gli occhi. “E ’vero che gli uomini sono fondamentalmente crudeli? La dignità a cui ci aggrappiamo non è altro che un’auto illusione?” si chiede uno dei prigionieri. Ma gli occhi non si devono mai chiudere, dobbiamo sapere e ricordare.
Un breve capitolo intitolato “La scrittrice. 2013” conclude il libro. E’ Han Kang stessa a raccontare il suo ritorno a Gwangjiu trentatre’ anni dopo il massacro, a dirci la sua metodica e ossessiva ricerca tra montagne di documenti e il suo trovare un preciso filo rosso che la porta a Dong-ho, il ragazzino di 15 anni ammazzato dai militari e alla sua tomba nel cimitero “18 maggio”. Su questa tomba, e su quella di due altri ragazzi, Han Kang accende una piccola candela: “Mi inginocchiai e le accesi. Non pregai. Non chiusi gli occhi né osservai un minuto di silenzio. Le candele bruciavano regolarmente (..). Fissai in silenzio la sagoma tremolante della fiamma, che si agitava come l’ala traslucida di un uccello”. Penso che questo libro sia una piccola candela che continua a ardere per diradare un poco le tenebre a chi non vuole chiudere gli occhi.
Giovanna Majno
L’ora di greco
di Han Khang,
Adelphi 2023
Il fascino e le risorse di una lingua antica, radicalmente estranea, per due persone disabili e traumatizzate
Anche per noi europei, vicini alla lingua e alla cultura del mondo ellenico, il contatto col greco antico assume a volte la funzione di tramite verso l’altro e il diverso, alla ricerca delle origini stesse della parola. Le particolarità della scrittura, le variazioni delle antiche radici, ancora riconoscibili; la raffinata composizione dentro una singola voce verbale di una miriade di significati, sfumature e funzioni hanno fatto amare anche a me questa lingua archetipica, che può funzionare da ponte verso le differenze, in una tensione di libertà e di novità, pur nella malinconia di un remoto passato.
Che cosa può spingere due persone coreane, cresciute in un contesto linguistico e culturale tanto distante a noi, a trovare rifugio , conforto e prove di comunicazione nel greco antico? Il mondo oggi è interconnesso e anche le culture lo sono. I due personaggi del romanzo di Khang, una donna e un uomo di Seoul, dopo i diversi traumi subìti scoprono in un corso dedicato alla lingua “morta” ellenica un iniziale terreno di contatto. Non hanno nomi propri, ma sono ben individuati nelle loro disabilità e nelle sfumature delle loro emozioni; il finale apre alla speranza di una comunicazione condivisa e intima.
Lei è una donna sempre vestita di nero, dotata di una sensibilità linguistica eccezionale: fin da piccola ha amato giocare genialmente con parole, suoni e trasfigurazioni alfabetiche. Ha lavorato per anni come insegnante di letterature e nell’editoria. Le lingue l’hanno sempre affascinata, ma le parole hanno potuto anche ferirla nel profondo, nella sua ipersensibilità che le provoca a volte acute sensazioni di dolore. Nell’adolescenza essa ha vissuto un lungo periodo di totale blocco della parola, restando confinata nel silenzio. Da questa afasia ha potuto uscire improvvisamente grazie a un’unica parola francese carica di derivazioni greche, “bibliothèque”, che un insegnante le ha proposto in modo casuale e che ha avuto il potere di ripristinare di colpo in lei il nesso tra suono, significante e significato e di far riemergere l’intero universo delle lingue.
Un nuovo blocco di afasia, ancora più totale e devastante, insorge poi nella sua vita adulta dopo la morte della madre e in séguito a un grave trauma familiare: un rapporto di coppia fallito, il divorzio dal marito e l’affidamento quasi esclusivo al padre dell’unico figlio nato dall’unione. La madre riesce a vedere il bambino solo ogni quindici giorni e potrebbe perderlo anche per lunghi periodi, forse per sempre. Immersa in un silenzio ovattato, in cui il mutismo e la sordità rischiano di rendere frammentaria e precaria tutta la sua esperienza di vita per l’impossibilità di esprimerla mentalmente in parole, la donna s’impegna a seguire un corso di greco antico in un istituto culturale di Seoul. Tutti i giovedì mattina lei, che percorre instancabile a piedi le vie della capitale sudcoreana, s’incammina verso la sua lezione difficile e un pò esotica, con un voluminoso manuale di grammatica e un grosso vocabolario greco-coreano. Condivide in silenzio le lezioni con alcuni pochi compagni, dalla vita particolare.
Lui è l’insegnante che tiene il corso, un uomo fragile di mezza età con occhiali dalle spesse lenti verdi, affetto da una mancanza grave: per una malattia congenita sa di essere destinato a perdere completamente la vista, che gli si affievolisce e gli si annebbia giorno dopo giorno. Nato e cresciuto in Corea, nell’adolescenza per traversie storiche e politiche si è dovuto trasferire con la famiglia in Germania, a Francoforte. Ha vissuto tra le due lingue, coreano e tedesco, ma è stato deluso e ferito da entrambi i luoghi e le culture. In età adulta torna a Seoul, dopo aver perso la donna sordomuta che amava e un caro amico, morto da poco. Si rifugia nel greco antico – che aveva incontrato tramite la filologia tedesca- come in una zona franca di libertà, immune dai traumi storici e personali incorporati nelle due lingue moderne che parla. Tra l’altro, come idioma “morto”, il greco lo affascina anche suggerendogli forme di comunicazione immaginaria e malinconica con le persone care scomparse. Scrive lettere e coltiva il dialogo con gli assenti e coi defunti, in attesa della perdita definitiva della vista. Sa che alla fine di questo aggravamento riuscirà a “vedere” solo nei sogni e l’affievolirsi delle immagini mentali renderà anche la sua esperienza frammentaria e precaria. L’insegnante maschera la sua progressiva cecità ricorrendo alla memoria, la corsista è immersa in un silenzio totale, ma segue le lezioni con impegno e interesse tramite la capacità di leggere il labiale di quanto dice il docente; intanto riempie il suo quaderno trascrivendo le frasi greche che lui compone, traduce e spiega alla lavagna.
Come anche nel romanzo “La vegetariana”, Han Khan lavora intorno al tema dell’incomunicabilità e della fragilità umana. In questo romanzo troviamo le molteplici risorse di chi non dispone della vista e della parola, strumenti potenti e delicati che possono purtroppo eclissarsi: si può ricorrere a linguaggi dei segni, lettura di labiali, scambi di scritti, cenni, gesti, sguardi, posture, cicatrici e altri segni corporei. Quando anche questi strumenti diventano inutilizzabili resta il tatto: le due persone potranno comunicare “scrivendosi” col dito le frasi sulla pelle, quella dei palmi delle mani che si porgono a vicenda o quella delle spalle. La trama del romanzo è leggera, scandita da pensieri, lettere e sogni; è fatta di eventi anche minimi, narrati con una raffinatissima trascrizione verbale delle sensazioni e delle emozioni delle due persone, nelle loro disabilità. Nella seconda metà del testo un’improvvisa irruzione drammatica (almeno secondo la prospettiva dei due personaggi), interrompe per poco la minuziosa narrazione dei fatti quotidiani. Infine pare che la comunicazione tra i due riesca a stabilirsi e anzi a diventare profonda e intima. In questo senso l’autrice ha potuto scrivere che “L’ora di greco” è “quasi un lieto fine” per il romanzo “La vegetariana”.
Questo lavoro di Khan, ambientato nella calura estiva di Seoul e nelle notti della città, è tutto intessuto di riferimenti culturali e filosofici, dalle citazioni di Borges (anche lui cieco) alla filosofia di Platone: l’insegnante la legge e la propone nell’originale greco e la rimedita con riflessioni che richiamano il buddhismo e la cultura orientale. “L’ora di greco” è un testo profondissimo e raffinato, che si rivela nuovo a ogni rilettura. La scrittura si fa sempre più leggera e alla fine diventa integralmente poetica: del resto, Khan è anche autrice apprezzata di raccolte di poesie.
“L’ora di greco” è un prisma che può riflettere innumerevoli significati. Dal tema della comunicazione a quello della disabilità, dalla relazione tra i generi al rapporto tra Oriente e Occidente, alla connessione tra corpi e coscienze, sensibili ai drammi e ai traumi storici; e tra viventi e persone scomparse. La lingua greca antica fa da tramite, come culla della cultura occidentale e insieme ponte verso l’oriente, come risorsa vitale che sa rinascere in modi inaspettati pur nella malinconia della perdita e della morte.
Vittoria Longoni