di Margaret Atwood
(Ponte alle Grazie Salani editore, 2018)
Una decostruzione puntuale e irriverente, ironica e insieme sapiente, scaturisce da questo libro di Margaret Atwood, “Il canto di Penelope”, che attraverso la parola stessa della defunta protagonista, interpreta la diversa narrazione dell’Odissea che l’autrice disvela. “Ora che sono morta so tutto”, con questo pensiero della regina di Itaca inizia il primo capitolo dal titolo ‘Un’arte minore’, che è quella del narrare, arte di cantanti ciechi e donne anziane, girovaghi e ancelle… Qui Penelope dal regno delle ombre può farsi menestrella, senza più paura che possa essere disdicevole per il suo ruolo, e iniziare a tessere una nuova tela, quella del racconto della sua verità, anche se da “…questa condizione di senzaossa, senzalabbra, senzapetto – ho imparato cose che avrei preferito non sapere…” confessa.
Un disegno della storia e del mito eroico dalle molte ombre e dalle molte escluse, che la sua voce comincia a dipanare, un “canto” che diviene corale accompagnandosi alle voci delle fanciulle a lei più care: dieci volte interviene il Coro delle ancelle narrando, come nella consapevolezza seriosa e burlesca insieme, libera, di un gioco infantile, la tragedia che le ha colpite, traversando fino alla fine l’attesa di Penelope, sue uniche compagne di stratagemmi e risate notturne al telaio che disfa…
Il sottotitolo del testo, ‘Il mito del ritorno di Odisseo’, riporta a interpretazioni, saghe, versioni, tradizioni orali e locali che abbondavano già prima di Omero, e a cui Atwood attinge, esplorando anche le origini della saggia Penelope, il padre Icario re di Sparta da piccola l’aveva fatta gettare in mare, ma le anitre l’avevano salvata, del resto sua madre era una Naiade, una ninfa delle acque. Poi le nozze combinate, con un torneo che Ulisse vince con un infausto accordo, le ironie della bella Elena, sua cugina, il rovello continuo della gestione del regno sotto assedio, il rovello dello sposo, eroe bugiardo. È la sua Odissea, che vibra nei retroscena del mito del principe astuto, e perso nei meandri del Mediterraneo e nelle vesti e nei corpi di antichi resti di dee.
La chiusa del gran finale del poema forse non è mai stato letto a scuola, ci si fermava all’uccisione dei Proci traditori e scialacquatori impropri, ignorata l’impiccagione delle dodici ancelle, le più belle divenute loro preda, amanti ma come inviate speciali della regina, per carpirne le mosse suggerisce Atwood. Una fine non gloriosa in effetti per un poema eroico, e quasi in sordina, continua a suggerire l’autrice, elemento in realtà rivelatore di un ordine diverso del vivere, che viene soppiantato, fatto sparire. Penelope, sacerdotessa iniziata alla dea, già dall’essere bambina scampata alle acque, diviene di nuovo solo la sposa fedele, e alle dodici, sue adepte del tempio, “…spuntano le piume e volano via come civette” (Commiato 149).
Senza mancare d’essere pungolo-insidia alle inquietudini del vincitore, maestro d’inganni.
Margaret Atwood, voce fra le più note della narrativa e poesia canadese.
14 ottobre 2021 Rita Bonfiglio