di Grazia Longoni.
Tante ragazze e ragazzi, sabato 6 maggio, alla Casa. Hanno affollato lo Spazio da Vivere discutendo con attenzione e passione un problema di cui si sta molto parlando: l’ansia e le paure con cui affrontano ogni giorno la scuola.
Sul palco, Gaia, Vittoria e Lorenzo, studenti di tre licei milanesi e tre insegnanti di altrettanti istituti superiori della città. Ha introdotto il tema Cristina Migliorero, responsabile del Progetto Scuola di Itaca. La psicologa Chiara Maiuri ha condotto la discussione. Faceva da contrappunto sonoro la chitarra e la voce di Matteo Crea, un venticinquenne che ha scelto di tradurre in canzoni i suoi disagi e le sue crisi.
Con il titolo molto esplicito “Pensavo meglio la mia gioventù” si è aperto quindi nel primo pomeriggio l’incontro organizzato dallo Sportello degli Sportelli della Casa delle Donne e dall’Associazione Progetto Itaca (che si occupa di vari aspetti della salute mentale) nell’ambito della Civil Week 2023, quattro giorni di confronti, quest’anno sul tema della cura, promossi dai Centri di Servizio per il Volontariato della Città metropolitana di Milano, da Associazioni e Forum del Terzo settore, dall’inserto Buone Notizie del Corriere della Sera con il patrocinio di Comune e Regione.
“Che cosa vi fa star male?” ha chiesto la psicologa. Risposte univoche dai ragazzi: “il voto come unico motore per studiare”, “essere sempre valutati”, “il rapporto con i prof che ci vedono solo come alunni e non hanno alcun interesse per noi come persone”, “le verifiche a raffica, con valutazioni di cui spesso non capiamo il motivo”. E ancora “i prof dovrebbero farci amare le loro materie e così motivarci a studiare”, “il voto spesso non è oggettivo e porta solo competizione tra di noi”. “Dovrebbe esserci più rispetto, ma io ho paura della prof di latino”. “Studiamo filosofia e nessuno ci chiede che cosa ne pensiamo noi delle teorie che vengono esposte”. “Ci si chiede di imparare tutto a memoria, ma io sono dislessica e non riesco”.
Una “galleria degli orrori”? Naturalmente non è tutto e non è sempre così. Molti insegnanti, come quelli presenti alla Casa, sono attenti agli studenti e sensibili ai motivi che stanno dietro al loro disagio. Sono motivi “multifattoriali”, che il Covid ha fatto esplodere nei due anni di lockdown e didattica a distanza ma che erano già ben presenti nella società e nel sistema scolastico nel suo insieme: mancanza di dialogo in classe ma anche in famiglia, competitività esasperata, eccesso di pressioni sulla prestazione, mancanza di orientamento nella scelta della scuola, una modalità di valutazione (il voto) spesso non trasparente e non formativa. E, per gli insegnanti, sovraccarico di incombenze legate alle dimensioni degli istituti e ai programmi ministeriali.
Altrettanto chiare, anche se non sempre facili da applicare, le buone pratiche. La scuola dovrebbe essere proprio il luogo dove si affronta il disagio. Ma anche qui: gli sportelli di aiuto psicologico, che esistono quasi ovunque, sono una goccia nel mare del bisogno di istituti frequentati da centinaia o migliaia di studenti. E a volte vengono usati con scarso rispetto per la privacy dei ragazzi, ignorando lo stigma che può scattare verso chi si rivolge allo psicologo. D’altra parte, l’insegnante non può avere competenze su casi anche gravi che si presentano.
Alcune proposte concrete sono arrivate da chi rappresenta il sistema scolastico. “Valorizzare le competenze digitali dei ragazzi, che sono alte e poco utilizzate”, “introdurre più gentilezza nel rapporto tra insegnanti e studenti”, “eliminare le valutazioni negative” oppure (qui i pareri sono stati diversi) “adottare parametri di valutazione chiari e condivisi con gli studenti”, “aumentare da 18 a 24 le ore di presenza degli insegnanti dedicandone 6 alla cura della didattica e al rapporto con gli studenti”, “avvalersi di metodi esperienziali nell’apprendimento, che possono servire persino per imparare l’aoristo in greco”. E soprattutto “portare il mondo esterno nella scuola”. Dove pare che proprio non ci sia.