di Antonella Polisena.
Nella seconda metà del Novecento, il femminismo radicale, con il celebre motto “il personale è politico”, smascherò l’inganno che separava la sfera privata dalla politica, svelando che le esperienze quotidiane delle donne — dal lavoro domestico alla sessualità — non erano altro che riflessi di dinamiche patriarcali più ampie. “Il personale è politico” non era solo un’affermazione, ma un atto politico in sé, un invito a decostruire le gerarchie di potere e ad agire collettivamente per ribaltare l’ordine stabilito. Oggi, in un contesto che sembra dimenticare l’impegno politico collettivo, riscoprire il senso di questa affermazione e restituirle il suo valore originario è più che mai necessario.
Il collettivo: fondamento del cambiamento politico
Lo slogan “il personale è politico” implica che le esperienze individuali non siano mai neutre, ma piuttosto parte di un sistema più grande, e come tale, possiedano un significato politico che trascende il privato. Tuttavia, per evitare che il femminismo scivoli in un esercizio di mera autoaffermazione, è imperativo che la consapevolezza personale si traduca in una lotta collettiva. La politica del personale non può risolversi nell’esplorazione individuale delle proprie esperienze, ma deve evolversi in un’azione condivisa e strutturata che intenda sovvertire l’ordine dominante.
La crisi della collettività nell’attivismo contemporaneo
Se nel passato la collettività rappresentava il fondamento stesso dell’attivismo, oggi la questione è più complessa. L’individualismo dilagante, che permea ogni ambito della nostra vita, non risparmia nemmeno i movimenti femministi. La tendenza a ridurre il femminismo a una mera espressione di esperienze individuali, pur legittime, rischia di svuotare la lotta delle sue potenzialità politiche. La politica, infatti, non può esaurirsi nel piano personale: essa si radica e prende forma solo nel collettivo.
Le attiviste di ieri ci hanno mostrato che non esiste trasformazione senza conflitto, senza una tensione produttiva che nasce dalla necessità di unire le differenze. La collettività non è un’opzione, è una condizione necessaria. Per quanto le singole esperienze possano essere significative, sono solo nella relazione, nell’organizzazione, nel gruppo che esse acquisiscono un significato politico profondo.
Sorellanza come prassi politica
La sorellanza, spesso ridotta a una retorica che celebra l’empatia, è in realtà una prassi politica radicale. Non si tratta di un’affinità spontanea, ma di un impegno quotidiano a costruire legami tra donne — e tra donne e altri soggetti oppressi — per creare forme di resistenza che possano sfidare l’ordine socio-politico dominante. La collettività non nasce in modo naturale, ma va costruita, negoziata, consolidata.
In questa costruzione, la diversità è la chiave. Audre Lorde, in Sister Outsider, sottolinea come “le nostre differenze siano una risorsa, non un ostacolo”. Una vera collettività, infatti, non è un luogo di omogeneità, ma di confluenza di esperienze, culture, identità diverse, che si incontrano e si rafforzano nella comune volontà di trasformare la società. Una politica femminista che esclude la diversità non può che essere destinata all’inconcludenza.
La sfida del nostro tempo: oltre la frammentazione
L’attivismo femminista contemporaneo si trova oggi a fronteggiare una grande contraddizione: la crescente visibilità dei temi femministi non è accompagnata da un’efficace organizzazione collettiva. Il rischio è che la pluralità di voci e azioni finisca per disperdersi in un mare di iniziative autonome, incapaci di connettersi tra loro e di produrre un cambiamento radicale. Questo, per quanto legittimo, rischia di far mancare al femminismo quella forza organizzativa che ne ha segnato le conquiste storiche.
Ogni grande avanzamento dei diritti delle donne è stato il frutto di una costruzione collettiva. Pensiamo alla legalizzazione dell’aborto, alla parità salariale, alla lotta contro la violenza di genere: ogni conquista è stata il risultato di reti di solidarietà e di resistenza, di mobilitazioni che hanno saputo mettere in comune esperienze e saperi. Senza una base collettiva solida, il femminismo rischia di divenire un’attività sporadica, incapace di radicarsi nel tessuto sociale.
Un femminismo che torni a essere trasformativo
Tornare a dire che il personale è politico significa rifiutare la deriva individualista che insegue l’autoaffermazione a scapito della trasformazione sociale. Non possiamo permettere che la lotta femminista diventi una questione di visibilità personale o di conquiste individuali. Come scriveva Simone de Beauvoir, “Non si nasce donne, lo si diventa”. E diventare donne, oggi, significa riconoscere che il nostro destino non è mai separato dal destino delle altre. La lotta per la parità e la libertà non è un percorso solitario, ma un cammino collettivo.
Il femminismo che ha cambiato il mondo è stato, e deve continuare a essere, un femminismo che si fa collettivo, che agisce nelle piazze, nelle case, nei luoghi di lavoro, nei gruppi di discussione. Un femminismo che non solo abbatte le barriere, ma costruisce ponti. Perché solo nella collettività il personale può diventare davvero politico, solo insieme possiamo davvero cambiare il mondo.