fiori

@Livia Sismondi

Mi dicevo di star vivendo magnificamente il periodo del lockdown. Mi ripetevo di essere ormai abituata da anni alla solitudine e di essere molto fortunata: avevo una casa tutta per me, ero al sicuro, le sirene delle ambulanze non si tacevano mai davanti al cancello del mio condominio, il silenzio era rotto dalle grida e dalle risate allegre delle tre bambine recluse nell’appartamento sotto il mio, nessuna persona a me cara stava morendo.
Fino al 4 maggio… Nelle settimane successive il malessere mi ha invaso giorno dopo giorno, senza che io mi arrendessi ad accettare che la pandemia e tutto quello che stava comportando mi aveva colpito e colpiva nel profondo.
Quando ho saputo che la nostra socia e soprano Jenny Rowley aveva proposto alla Casa di registrare un suo concerto in memoria dei tanti morti e sepolti in solitudine a causa del Covid-19, mi sono detta soltanto, con una sorta di distante freddezza, che era doveroso, che bisognava farlo, che Jenny era bravissima…
Dopo qualche settimana, grazie alle cure di Livia Sismondi, la proposta di Jenny è diventata realtà: il suo cantare è diventato la materia di un video, dal titolo In memoria, per la regia di Andrea Giovarruscio. Quando l’ho visto per la prima volta non sono riuscita a trattenere le lacrime. Di dolore e di accettazione. Il dolore dunque era anche mio e mi è parso all’improvviso evidente che certe tragedie sono inesorabilmente collettive, che ad esse non si può, neanche volendo, sottrarsi, se non al prezzo di una terribile violenza su se stessi e gli altri.
Abbiamo discusso di cosa fare del video che era – è – troppo intenso e significativo per essere messo su YouTube o sul sito della Casa senza l’accompagnamento di un rito collettivo al quale tutte e tutti potessero partecipare. D’altra parte, il concerto di Jenny sarebbe stato davvero scempiato se l’avessimo trasmesso via Zoom, l’unico modo per condividerlo visto che lo Spazio da vivere della Casa (che ne costituisce la scenografia) è ancora oggi chiuso.

spaziodavivere

@Livia Sismondi

Abbiamo alla fine scelto di organizzare per il 1° luglio un incontro online – intitolato, come il video, In memoria. La Casa ricorda –, in cui si potesse esprimere collettivamente il cordoglio per tanti morti e trovare un po’ di conforto, un rito della Casa nel corso del quale mostrare un breve spezzone del video. Nel presentarlo, Livia Sismondi lo ha definito “un abbraccio in musica alle vittime del Covid-19” sepolte senza un saluto da parte delle persone amate e che le amavano, una cerimonia con un concerto senza pubblico, come quelle morti “che non hanno avuto chi vi assistesse”. Subito dopo Jenny Rowley, per introdurre i pochi minuti del video in cui canta l’Ave Maria di Jakob Arcadelt di fronte alle sedie dello Spazio da Vivere (sulle quali sono posti dei cartelli con i nomi di molti dei luoghi colpiti dal virus in Italia e nel mondo), ha raccontato di come le fosse venuta l’idea del concerto. Durante il lockdown, per trovare un po’ di consolazione dopo un periodo di sgomento e sofferenza, aveva preso in mano degli spartiti di musica sacra e antica e si era detta che con la sua voce forse avrebbe potuto contribuire ad alleviare il dolore suo e di altri. L’ha convinta definitivamente a realizzare quell’idea un sogno, in cui si è vista cantare proprio nella Casa delle Donne vuota.

Sul lutto e sui suoi rituali hanno poi parlato Anita Sonego e Filomena Rosiello. Anita ci ha raccontato i riti funebri dall’Alto Paleolitico ai giorni nostri, proiettando immagini di siti archeologici, monumenti ed opere d’arte. I rituali del lutto sono un indicatore di civiltà: a partire dalle prime azioni di sepoltura, fino alle cerimonie con al centro le donne che cantavano lamenti funebri e innalzavano lodi al morto nel Basso Egitto, nella Grecia preclassica, nelle civiltà italica, etrusca e romana. La diffusione del cristianesimo, coniugando alla morte l’idea della resurrezione, ha modificato profondamente il rito funebre da cui, come testimoniano numerose opere d’arte fino al Rinascimento, viene bandita la rappresentazione dell’espressione del dolore connesso alla morte. Solo nei secoli successivi essa sarebbe tornata ad essere considerata degna di essere raffigurata. Anita ha concluso auspicando che anche in Italia, anche a Milano, si organizzi un rito pubblico che legittimi un lutto che, pur essendo sociale, siamo invece costrette/i a vivere in silenzio e individualmente.Jenny Rowley
Filomena, psicologa, che ha collaborato sia col Servizio gratuito di supporto psicologico organizzato dalla Società italiana di psicologia dell’emergenza in Lombardia sia col Supporto psicologico Covid-19 del Ministero della Salute, ha ripreso il tema dell’importanza del rito funebre nel facilitare l’avvio del lungo e complesso processo di elaborazione di un lutto. Il rito permette infatti di manifestare pubblicamente il proprio dolore, di avere il conforto della comunità, di evocare con altri la persona amata. Se poi a all’assenza del rito si aggiunge, come è sempre accaduto nel periodo dell’emergenza, l’impossibilità di stare vicino al proprio caro e di conoscere il luogo, i modi e i tempi della sua morte, si può cogliere il sentimento di profondo smarrimento, impotenza e anche di estraneità che pervade chi rimane. Cui si assomma talvolta anche un grave senso di colpa quando questi, magari a sua volta ammalato, si rimprovera di aver contagiato la persona deceduta.candela

Grazia Longoni, i cui zii sono morti in ospedale e in solitudine a Bergamo a causa del Covid-19, ha letto un breve testo, quasi un poesia, scritto da uno dei suoi cugini, Gigi, in occasione di una recente cerimonia per ricordare i genitori. Si tratta di una testimonianza potente di quanto sin qui evocato e la voglio riportare per intero: “Una foto / una bara / due bare / nessuna camera ardente / nessuna visita a parenti o amici / nessun vestito bello / poco tempo per piangere / il freddo obitorio dell’ospedale / bare che entrano nel cimitero / portelloni alzati per l’ultimo saluto / il viaggio nella notte su un camion militare / cimiteri deserti / cortei surreali / avremmo voluto di più / vogliamo fare di più / guardiamo la vostra foto / e ricordiamo / ciao papà ciao mamma”.

Ha chiuso l’incontro la testimonianza di Titti De Simone, infermiera in un ospedale pubblico di Milano. Titti ha parlato del terrore, suo e dei suoi colleghi, quando il primo ammalato di Covid-19 è giunto in ospedale. Nessuno di loro all’inizio sapeva come affrontare la situazione. Leggevano ogni giorno pagine e pagine di nuovi protocolli e procedure, lei vedeva e rivedeva il video della vestizione e della svestizione in sicurezza. Ha ricordato in particolare la prima volta che è dovuta entrare in un reparto di isolamento, bardata di tutto punto, con la mascherina che le impediva di respirare. La notte precedente non era riuscita a dormire. Eppure lei, come i suoi colleghi, hanno continuato a entrare in quel reparto, per senso del dovere, per l’etica della professione. Il timore maggiore rimaneva però quello di poter contagiare i suoi figli, suo marito, i suoi genitori. A un certo punto, piuttosto di sottoporsi ogni giorno ritornando a casa alla ritualità del pulirsi, lavarsi, decontaminarsi, tenere la mascherina e le distanze, ha deciso di isolarsi e di andare ad abitare con una collega in un appartamento che le era stato messo a disposizione da generosi milanesi. Le ha dato coraggio il rapporto con i suoi colleghi, con la sua comunità, la condivisione dei loro vissuti. Passato lo shock, è però arrivata la rabbia per come la situazione era stata gestita. Basti pensare che il test sierologico le è stato fatto solo il 3 di maggio e solo dopo di allora ha avuto il coraggio di abbracciare le sue bambine e suo marito. Di quel lungo periodo di isolamento ricorda i percorsi in bicicletta in una Milano vuota in cui la primavera esplodeva e lei si sentiva impaurita ma anche speranzosa. Diceva a se stessa che c’è sempre una fine, per ogni cosa, e poi arriva una rinascita.

Paola Redaelli


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