Non riesco ad adattarmi all’uso sempre più frequente del termine “guerra”, abbinato alla lotta contro il coronavirus.
“Siamo in guerra”, “dobbiamo vincere questa guerra”. Espressione usata anche recentemente da Trump. Tutti trasformati in guerrieri, anzi in militari, armi alla mano per sconfiggere il nemico. L’emergenza non coincide con la guerra. Credo che chi ha più di 80 anni non possa che opporsi all’uso di questa parola, sperimentata ahimè sulla propria pelle, parola che ai più giovani può inculcare la voglia di combattere, suffragata dai videogames, una chiamata alle armi, addirittura sollecitata dagli adulti, applicata a uno scenario estraneo alla guerra, dominato da Scienza e Tecnologia.
Non è un caso che negli USA appena diffusasi la notizia del contagio ci sia stata una corsa ai negozi di armi…
Noi bambini uscivamo dalle nostre abitazioni di “sfollati”, avvolti in coperte tra le braccia di nonni e zii, di corsa verso “il rifugio” più vicino per sfuggire al bombardamento annunciato da spaventose sirene. Avevamo fame e la paura di vendette di cui sentivamo parlare senza rendercene conto.
Il nemico non era un virus ma un essere umano, pronto a massacrarci, ben altra cosa di un involucro amorfo entrato involontariamente nelle nostre vite.
Ai nostri giovani noi insegniamo la Pace tra i popoli, il rifiuto delle armi, l’accoglienza di coloro che in fuga dalle guerre cercano ospitalità nel continente europeo….
Come possiamo usare la parola “guerra” in senso positivo, come se l’eliminazione, il superamento di un’epidemia potesse essere paragonato a una “vittoria riportata in guerra”, sia pure battezzata come “guerra santa”, in cui consapevolmente i potenti del mondo mandavano al massacro intere popolazioni, costringendole ad affrontarsi l’un l’altra, divenute all’improvviso nemiche?
Questa era, questa è, a tutt’oggi, la guerra. Non esportiamone le perverse rievocazioni su un terreno improprio.