Le cronache della violenza maschile sulle donne erano sullo sfondo. Ma la discussione che ha animato la Casa delle Donne il 23 maggio ha avuto un taglio diverso: parlare dell’aggressività contro le donne come di una parte dell’identità maschile. E parlarne con loro, gli uomini, per una volta in maggioranza tra i relatori e comunque presenti tra il pubblico.
Chi l’ha definita “un bagaglio”, chi “uno zaino che mi hanno caricato dalla nascita”. O “una bestia” come hanno detto altri facendo eco al libro di Francesco Piccolo (“L’animale che mi porto dentro”), una cui intervista è stata proiettata durante la serata.
Una discussione non facile. Né per gli uomini che hanno parlato o sono intervenuti nel dibattito, che hanno mostrato passione, ma anche fatica ed emozione nell’affrontare il tema. Né per le donne che, come molte frequentatrici della Casa, provengono dalla cultura separatista del femminismo degli anni Settanta.
Di qui la sensazione di avventurarsi su un terreno nuovo, che avrà bisogno di tempi e strumenti per definire la direzione e l’orizzonte in cui muoversi.
Silvia Neonato, che per l’ultimo numero della rivista Leggendaria ha curato l’inchiesta “Ma che rabbia!”, ha detto che il punto di partenza non è stata la riflessione sui dati, pur impressionanti, della violenza maschile sulle donne in Italia e nel mondo, ma uno sguardo più ampio. Partito dall’affermazione del Nobel americano Paul Krugman che la vittoria di Trump è frutto “dell’odio verso le donne dei maschi bianchi americani”, un odio che si nutre di rabbia per la libertà sessuale acquisita, di frustrazione nel vedere le donne avanzare nei posti apicali.
Confermato dalle posizioni di leader delle destre europee come lo spagnolo Santiago Abascal Conde (Vox) che vuole “combattere la lobby femminista” e promette di abolire la legge antiviolenza (e i fondi pubblici per i centri) e di rivedere quella sull’aborto. Tema chiave, quest’ultimo, anche in Polonia, Ungheria e tra i partiti di estrema destra in Germania, Austria e altri stati europei. C’è dunque, nel mondo, un conflitto di potere aperto a cui si contrappongono la reazione delle donne e la “lunga marcia” che anche alcuni uomini hanno iniziato.
Neonato, come altre donne intervenute, si è detta molto colpita dall’”estrema sincerità con cui il libro di Piccolo affronta con chiarezza la costruzione delle gabbie del maschile”.
Di Piccolo è stata proiettata un’intervista in cui, alla domanda se sia possibile oggi costruire una maschilità diversa che sia accettata culturalmente dai maschi ma anche dalle donne (perché il discorso vale certamente anche per loro), risponde: “Non solo si può, ma si deve. Il problema è che è davvero una lotta. Io a 13 anni ho detto a me stesso ‘Non voglio essere quel maschio lì’ però a cinquant’anni ho scritto un libro per raccontare quante volte ancora sono quel maschio lì. Penso che questa lotta abbia un segno positivo, ma ancora molto minore rispetto alle energie che si mettono in campo e ai risultati che si ottengono”.
Ne ha parlato Danilo Villa, che ha raccontato i suoi dieci anni di lavoro in un gruppo della rete Maschile Plurale come uno “spellarsi l’anima”, un “percorso di cambiamento molto difficile e di grande patimento, che però ci fa prendere coscienza di noi stessi”.
Come agire nello spazio pubblico, come confrontarsi con gli uomini che incontriamo nei bar, nello sport, nei luoghi di lavoro? “La parola è il primo strumento che può aprire alla relazione, lo stiamo sperimentando nelle scuole, parlando con giovani uomini un linguaggio che non sia giudicante” rileva Villa. Se tra uomini con una sensibilità personale e politica può essere relativamente facile condividere la critica al maschilismo, c’è anche un altro terreno più aperto da affrontare. “Equilibrio, sapienza, bellezza, accudimento, amore, possono essere parole per indagare il maschile oltre il patriarcato? Possono rappresentare percorsi di indagine su di noi per capire che c’è qualcosa di bello e di nuovo nell’essere maschi?”. Certo, ha concluso Villa “ci vuole tempo e il tempo ci chiede quella pazienza che facciamo fatica a esercitare”.
Massimo Crucitti, operatore del progetto “Uomini-non-più-violenti-si-diventa”, ha raccontato la sua esperienza di incontro con maschi che si sentono “a rischio” , che si rivolgono all’associazione perché riconoscono in sé l’impulso violento. “Oltre al gruppo maschile, può essere molto importante il dialogo a due, che sviluppo come tutor. Nel confronto intimo da uomo a uomo, ci si può confrontare con la diversità, dare un’alternativa, si può lavorare su quella positività di cui parlava Villa con risultati forse più profondi”. L’aspetto più delicato è coinvolgere uomini che non hanno consapevolezza, e a parole rifiutano in modo netto qualsiasi tipo di violenza sulle donne. “Bisogna essere molto cauti e usare un linguaggio morbido per coinvolgere altri maschi senza farli sentire giudicati”.
Chantal Podio, psichiatra, consulente del carcere di Opera, racconta quello “che sta dietro la violenza” partendo dal lavoro con una ventina di uxoricidi, quasi sempre incensurati e privi di patologie psichiatriche. “Gli uomini odiano le donne?” si è chiesta partendo dal titolo dell’incontro. “No, nessun uomo, violento o no, userebbe la parola odio. In genere i violenti dicono ‘l’amavo troppo’, o ‘sono stato violento ma mi ci ha portato lei’, ‘le donne fracassano’”.
Non devono essere considerate solo come giustificazioni. “E’ una risposta di difesa a una violenza femminile percepita. Le donne ‘hanno la lingua tagliente più del coltello’ dicono e, c’è anche una verità in questo. C’è un troppo nelle donne e nelle relazioni a cui il maschio reagisce. E citando Stefano Ciccone ‘C’è una asimmetria dei sessi che è percepita come uno scacco del corpo maschile, una sua accessorietà nel processo riproduttivo. La risposta maschile non ha cercato nel proprio corpo le potenziali risorse per dare senso al proprio stare al mondo ma ha costruito ruoli, poteri e narrazioni che surrogassero questa disparità’. Per essere genitore a una donna basta un rapporto sessuale, o una banca del seme” ha proseguito Podio. “Per l’uomo ci vuole ben altro, ci vuole una donna che lo riconosca come padre o un figlio che lo faccia, ma è un rapporto simbolico, da costruire. Inoltre, mentre la donna è madre sia dei maschi che delle femmine e sviluppa una capacità empatica verso entrambi, il maschio deve separarsi dalla madre per conquistare la sua identità”.
Che cosa succede quando il bambino capisce che non può generare e prende atto di un ‘di meno’? “Gli viene offerta dal patriarcato una soluzione narcisistica” ha spiegato ancora Podio, “abbassa l’altro per ipervalutare te stesso. Poiché mettere al mondo non mi appartiene, svaluto il mettere al mondo. Questa è l’invidia. Così la maternità, da esperienza di onnipotenza quasi divina diventa il luogo di reclusione delle donne. Visto che fai questo, farai solo questo. Ti controllo. Il corpo della donna svalutato diventa un contenitore, l’utero si associa all’isteria, all’instabilità femminile”.
E come si giustifica la necessità di dominare le donne? “Con la paranoia” risponde Podio. “Se non le domini, loro ti domineranno, sono pericolose, come le streghe, sono infide, manipolatrici. D’altra parte anche le donne hanno accettato e sostenuto il patriarcato, forse perché permetteva loro di mantenere il legame con gli uomini, e con i figli”.
Dopo l’inquadramento psicoanalitico, Podio torna all’esperienza sul campo: “La prepotenza è sempre una compensazione dell’impotenza, è una forma di debolezza, non di forza. Lavoriamo con gli uomini violenti cercando di ingaggiarli sul piano della loro vulnerabilità. Allora avremo lo spazio per lavorare sull’obiettivo, che è l’assunzione di responsabilità. Tutti iniziano dicendo ‘Io non sono un violento’. Bene, allora parliamo di quello che è accaduto. Alla fine del percorso ritorniamo su quell’affermazione, che non è mai il punto di partenza”.
Negli interventi del pubblico si è parlato del valore della conoscenza e della cultura come antidoti alla violenza, soprattutto se intese come capacità di conoscere se stessi e i propri impulsi aggressivi. Alcuni uomini hanno fatto notare la mancanza tra i maschi di una cultura del sentimento, la privazione fin da piccoli della possibilità di esprimere emozioni (non piangere), la mancanza di un’educazione all’empatia. E ancora è stato fatto riferimento all’educazione alla nonviolenza per entrambi i generi, che se fatta con i bambini potrebbe modificare il paradigma culturale. Infine, una riflessione: “Forse dobbiamo uscire dalla gabbia del binarismo di genere, se è vero che pensare in termini di uomini e donne ci impedisce anche di liberarci di tante trappole. L’umanità non è solo questo, c’è una multiformità di sfumature di genere che in modo artificiale è stata tagliata in due. Forse allargando le maglie dello stereotipo – maschio etero bianco- riusciamo a fare un passo avanti”.
Grazia Longoni