“When can we come back”? Alla fine del nostro sabato del tè cui le avevamo invitate mi stavano chiedendo quando sarebbero potute ritornare e io non credevo alle mie orecchie. Quelle ragazze poco più che ventenni, giovanissime richiedenti asilo, ospiti del Centro di Accoglienza di via Corelli, volevano ancora tornare alla Casa delle Donne. Cioè da noi che abbiamo una “certa età”da poter essere le loro mamme o anche… nonne. Un pensiero fugace ci aveva attraversate già prima di iniziare: si annoieranno? Proviamo lo stesso, ci siamo dette, perché il tema (ad ogni sabato del tè stabiliamo un tema) l’avevamo concordato: cantare filastrocche, ninne, nanne, canzoni ciascuna della propria infanzia o del proprio paese. E dopo aver preparato due tavoli con i nostri “mangiari” dolci e salati, ormai un rito consolidato tra noi, ci siamo mese in cerchio, sperando nella loro partecipazione.
Ma é bastato spiegare, iniziare noi con “Fate la nanna coscine di pollo” che alcune si sono messe subito a cantare una canzone di chiesa che sapevano tutte e poi i canti dei loro paesi e hanno iniziato a muoversi con i loro corpi sinuosi a ritmi frenetici. Cantano e ballano allo stesso tempo, muovono spalle, petto, bacino: uno spettacolo! Bellissime, sorridenti. Eravamo incantate. Poi abbiamo cantato e ballato tutte insieme. E mangiato e brindato. Una Festa, certo, se non fosse che a tratti, nei momenti di silenzio, a guardarle si poteva scorgere nei loro occhi neri neri un velo di tristezza, pensieri.
Chi davvero avevamo davanti? Avevamo cercato di sapere almeno nome e paese di provenienza un venerdì di metà maggio, quando per stabilire un primo contatto con loro le avevamo invitate a pranzo. Ed erano arrivate in 22, colorate con i loro veli e vestiti, accompagnate da tre educatrici. Quel giorno dopo il pranzo, buonissimo, preparato da tutte noi dei gruppi Intercultura e Scuola e altre socie, siamo andate nel nostro giardino e lì ci siamo presentate. Le ragazze, sbarcate a Lampedusa, sono per lo più nigeriane, ma anche somale, eritree, della Costa D’Avorio. Sperano di fare la parrucchiera, l’infermiera, la cuoca, la babysitter. Sono in Italia da tre, quattro, sei mesi e qui devono stare, perché ormai sono state registrate. Non conoscono una parola d’italiano, lo stanno studiando nel corso che è stato aperto all’interno del Corelli da un gruppo di volontarie/i. A noi hanno chiesto un corso di “economia domestica” e di “cucina”. E se dovessero fare le colf, quali detersivi? Come pulire i vetri? Oppure come cucinare la pasta? Vedremo in settembre cosa si potrà fare. Noi intanto speriamo che non finiscano nel racket della prostituzione, perché come ha denunciato la Caritas Ambrosiana spesso le ragazze “profughe” sono vittime di tratta.
Francesca Amoni
Foto di Livia Sismondi e Giovanna Scalfati