di Antonella Polisena.
Rieccoci qua. Siamo di nuovo allo stesso punto.
Siamo di nuovo qui a parlare della televisione e della Rai.
Che ci facciano forse un favore le gaffe della cara, vecchia rete pubblica, fornendoci un pretesto per parlare di femminismo?
Ai fatti c’è una Barbara Palombelli che si esibisce in un monologo mal formulato e ridondante dal pessimo ritmo scenico il quale passa dalla sua biografia di ragazza disubbidiente a un’analisi un po’ storica, un po’ sociologica, un po’ inesatta su come i diritti delle donne siano stati formulati negli anni della sua giovinezza per sfociare in un bonario ragguaglio sul doverli difendere, questi diritti, perché loro – quelle della generazione della Palombelli – li hanno conquistati andando in piazza e il consiglio è di andare incontro al futuro senza perdere la dignità e senza essere prudenti. Come dice Papa Francesco.
Ora, c’è un passaggio che in questo sommario riassunto del monologo abbiamo tralasciato, vittime della noia.
Ma è proprio quello su cui attecchiscono oggi le polemiche.
La Palombelli parla di “Donne vere” come tante ne ha conosciute.
Va ‘.
A me la Signora Palombelli verrebbe voglia di abbracciarla.
Ha l’età di mia mamma, lo sguardo annacquato dall’emozione e un consiglio dispensato in buona fede. Inesatto, lacunoso, paternalistico. Ma in buona fede.
Vorrei abbracciarla e raccontarle che i diritti forse ci sono arrivati dalla sua generazione, ma noi non ci siamo solo trovate a doverli difendere. Li abbiamo dovuti mettere in pratica. E nel metterli in pratica spingerli e dilatarli fino ai confini culturali del patriarcato che sussurra ancora oggi una cantilena rassicurante ai cardini della nostra cultura.
Che noi ci siamo alzate, e con voce poco soave abbiamo urlato per farlo smettere.
Le vorrei dire che in piazza ci andiamo anche noi.
Che abbiamo striscioni con le foto di tutte le nostre sorelle uccise, vittime della violenza di genere. Ce le appuntiamo come spillette vicino al cuore.
Che pretendiamo protezione con leggi che loro neanche si sognavano.
Che le abbiamo ottenute, pur solo in parte e non ci stanchiamo di consumare piazze, vie e città.
Le vorrei dire che sì, studiamo fino alle lacrime e lavoriamo fino all’indipendenza e con dignità. Tutti i giorni.
Lo facciamo anche per chi, di noi, non può o non è in grado. Per chi rivendica il diritto ad essere mediocre che nel destino di essere donna non è meno donna di chi aspira all’eccellenza.
Perché soprattutto, Signora Palombelli, Le direi che non c’è un Noi o un Voi, tantomeno se dettato da criteri generazionali. C’è solo un Noi multiforme, caotico e complesso che ci unisce tutte nelle nostre diversità, divergenze. Che non è coerente né uniforme ma ha l’inestimabile pregio di tenerci vicine nel grande destino – biologico o acquisito – di essere donne.
Puntarci il dito l’una verso l’altra non ci rende più vicine, ci distanzia una spanna almeno.
Essere paternalistici rispetto al paternalismo non è solo controproducente, è contraddittorio.
La aspettiamo allo Sciopero Globale Femminista e Transfemminista dell’8 Marzo, le facciamo vedere come Noi riempiamo le piazze. Se vorrà.