Riprendiamo i nostri ritmi, mentre la Casa riapre, proponendo testi di grande interesse: il magnifico romanzo storico dell’autrice etiope-americana Maaza Mengiste, Il re Ombra, Einaudi 2021, dedicato all’Etiopia soprattutto al tempo della feroce colonizzazione italiana, e alla resistenza armata delle donne, tra cui si era impegnata la nonna dell’autrice; le ricerche e interviste appassionate di Annalisa Cuzzocrea sulla condizione dei bambini durante il lockdown e sulla loro invisibilità nella società italiana, Che fine hanno fatto i bambini – Cronache di un paese che non guarda al futuro, Piemme, Mondadori 2021; e un’interessante ricerca sulla paura che fonda la misoginia, e sull’attrazione delle donne per le narrazioni di vicende mostruose e criminose, per comprendere meglio aggressori e vittime e per cercare strategie di uscita dalla violenza, opera di Jude Ellison Sady Doyle, Il mostruoso femminile, Edizioni Tlon, 2021

Maaza Mengiste
Il Re Ombra
Torino, Einaudi, 2021, pp. 422

MengisteDifficile dar conto in poche righe di un romanzo storico sconvolgente e complesso come “Il Re Ombra” della scrittrice etiope-americana Maaza Mengiste, magnificamente tradotto da Anna Nadotti.

Prevalentemente ambientato nell’Etiopia della feroce aggressione e colonizzazione italiana degli anni 1935-1941, il romanzo però inizia (e finisce) nel 1974, poco prima del colpo di stato che detronizza definitivamente l’imperatore Hailé Selassié, tornato al potere nel 1941 dopo la sconfitta italiana ad opera degli inglesi e dei partigiani etiopi.
Proprio tra quei partigiani che per sei anni si erano opposti ai colonizzatori, Maaza Mengiste scopre che c’era stata, insieme a molte altre donne, anche sua nonna.
Da ciò nasce in lei la decisione di scrivere Il Re Ombra, una sorta di poema insieme lirico e tragico che canta la resistenza femminile, anzi la resistenza e il riscatto delle donne etiopi, devastate dai loro uomini, dagli invasori e dalla guerra, attraverso la lotta armata.

Questo aspetto non è tuttavia l’unico. Anzi, delle vicende, dell’animo e del carattere di tutti i numerosi personaggi del libro, donne e uomini, Maaza Mengiste è capace di cogliere e svelare gli intrichi e le contraddittorietà attraverso un sapientissimo lavoro di scavo psicologico e di scrittura, senza per questo rinunciare a farne emergere il ruolo e le scelte di fondo nel conflitto.

Protagonista del romanzo è la giovane orfana Hirut, serva del nobile Kidane, un ufficiale dell’esercito di Hailé Salassié, e di sua moglie Aster. Il rapporto tra i tre è uno dei fili rossi che percorrono il romanzo.
Hirut pensa che Kidane le voglia bene come a una figlia, ma verrà delusa quando lui le sottrarrà di forza il suo fucile, unico dono ed eredità del padre morto, e inizierà a volerne la morte dopo essere stata da lui stuprata per ben due volte.
Aster invece ama Kidane non più riamata e riversa su Hirut la rabbia, il rancore e la gelosia impotente che lui le suscita.
La situazione inizia a cambiare quando Aster decide di partecipare con altre donne alla lotta contro gli italiani, prima nel tradizionale ruolo di addette agli approvvigionamenti e infermiere, poi, quando la situazione precipita, come combattenti.

Analoga da questo punto di vista è la vicenda di Hirut che ha l’idea di rianimare e rimotivare alla lotta la popolazione disorientata dalla partenza dell’imperatore con una “controfigura”: il Re Ombra che dà il titolo al romanzo. Ciò l’autorizza a diventare una combattente anche agli occhi di Kidane.

È da soldato che Hirut, una volta fatta prigioniera degli italiani, incontrerà il fotografo ebreo Ettore, il cui ruolo è quello di costruire per gli italiani rimasti a casa l’immagine della guerra “civilizzatrice” e dei selvaggi etiopi, ai quali possono essere inflitte le più terribili punizioni.

La sua adesione al compito è totale: è un “bravo” ragazzo con un rapporto tormentato col padre, che non riesce tuttavia a trarre alcuna conclusione sulla natura razzista della guerra che sta combattendo con le sue fotografie, neppure quando dalla patria giunge notizia del varo delle leggi razziali fasciste del 1938.
Quest’uomo, quando realizza che i suoi genitori rischiano la vita o sono addirittura già morti, cerca di comunicare la sua angoscia a Hirut. Lei in qualche modo capisce, capisce la parola “morire” da lui pronunciata malamente in aramaico. Forse per questo quando un commando di partigiani giungerà al campo per liberarla, lei, che conosce bene la morte, gli risparmierà la vita.

Paola Redaelli


Annalisa Cuzzocrea
Che fine hanno fatto i bambini – Cronache di un paese che non guarda al futuro
Piemme, Mondadori 2021

CuzzocreaIl titolo del libro riprende le parole di alcuni striscioni comparsi in varie città italiane durante il primo lockdown.
Annalisa Cuzzocrea, nota giornalista, inviata del quotidiano “La Repubblica” e madre di Carlo e Chiara, si è posta questa domanda mentre era chiusa in casa coi figli, alle prese con la mancanza della scuola e persino di una passeggiata intorno a casa, con nuovi problemi, paure e fragilità.

Un tema cruciale per la società italiana, che le stava a cuore già da tempo e che ha sviluppato osservando le reazioni dei bambini e intervistando psicologi, insegnanti, genitori ed esperti in tutta Italia.
Certo, quando si viaggia nelle città di paesi europei come Olanda, Germania e Francia, si nota subito che lì la presenza dei bambini è prevista in tutti gli spazi pubblici, considerata e agevolata in vari modi.
Da noi, accanto alla persistenza culturale di un’idealizzazione del materno, o forse proprio a causa di questa, dei bambini pare che si debbano occupare in esclusiva i genitori e le famiglia, ma soprattutto le madri.
Il problema di una pesante sottovalutazione e invisibilità dei bambini e delle generazioni future riguarda il mondo intero, con un’invadente cultura individualistica e miope, ma soprattutto la società italiana.

La pandemia lo ha messo in evidenza ancora di più.
Cuzzocrea dialoga con la psicoterapeuta infantile Bruna Mazzoncini, che le parla del terribile isolamento anaffettivo di molti bambini durante il lockdown; con la tredicenne Margherita che tramite una chat di compagni di classe ha saputo tenere i contatti con Luca, rimasto completamente solo, mentre i genitori erano ricoverati per Covid, e dargli un aiuto essenziale.

Insieme allo psicoterapeuta Matteo Lancini discute sull’iperinvestimento sui figli, che accanto all’individualismo imperante fa sì che i bambini siano ossessivamente presenti nella mente dei genitori, e totalmente assenti nella sensibilità generale. Ne nasce un’interessante rivisitazione del precetto evangelico: “ Ama i figli degli altri come se fossero i tuoi”.

Silvia Vegetti Finzi dà il grande contributo della sua personale memoria infantile, elaborata con molta profondità negli scritti autobiografici e nel suo testo fondamentale, Il bambino della notte.

Il dialogo dell’autrice prosegue con Chiara Saraceno, Annalena Benini, Viola Ardone, Nadia Terranova, Francesca Archibugi, Alessandra Casarico, Giacomo Papi, con Wilma Mosca e il suoAsilo, con Camilla madre di un bambino autistico. E con Rachele Furfaro, presidente di Foqus: un’esperienza di rigenerazione urbana nei Quartieri Spagnoli di Napoli, dove i bambini durante il lockdown hanno fatto esperienze importanti di scuola all’aperto, insieme e in presenza.

Si passa poi alle vite più difficili: i bambini che vivono nelle carceri insieme alle madri detenute, una condizione solo in minima parte alleggerita dal vari “reparti Zeta” o “sezioni nido”, o dalle poche esperienze di case rifugio, o a custodia attenuata.

Da tutto il libro emerge la necessità di dare la cittadinanza italiana ai bambini, figli di stranieri e di rifugiati, che frequentano nidi, scuole materne , elementari e medie in tutta Italia.
Il libro dà molti utili elementi di informazione e di analisi su un tema che è stato spesso discusso in ambiti femministi. In questo caso, c’è la novità di una focalizzazione molto intensa sul punto di vista dei bambini.

Vittoria Longoni


Jude Ellison Sady Doyle
Il mostruoso femminile
Edizioni Tlon, 2021

DoyleLa misoginia si fonda sulla paura: “Il mostruoso femminile” di Jude Ellison S. Doyle.
La tesi che Jude Ellison S. Doyle esplora in questo saggio è molto semplice: alla base della misogina c’è la paura.
La donna possiede un potere naturale, quello di dare la vita; l’uomo ha sempre temuto che questo potere fosse in fondo il più importante e che potesse sopraffarlo in qualche modo, quindi nel tempo ha cercato di tenerlo a bada controllando il suo corpo, come padre, marito, medico, sacerdote o legislatore.
Per corpo, s’intende l’utero, la libertà sessuale e tutto ciò che ne deriva.

Il pensiero va subito a quello che sta succedendo in Afghanistan: tra le prime iniziative dei taliban, ci sono state quelle che hanno subito scardinato la libertà delle donne di andare in giro da sole e a volto scoperto, di studiare, di lavorare; sono state relegate al ruolo di trofeo, di oggetto.

“La facoltà maschile di disporre sessualmente delle donne è il fondamento del patriarcato”, scrive l’autrice.

L’esempio dei taliban è solo uno dei più efferati e recenti, ma in realtà quest’attitudine al controllo e all’oggettificazione della donna ha radici antiche. La donna che di volta in volta ha scelto di ribellarsi è diventata un mostro, una strega, una pazza, una madre degenere, una peccatrice, una da uccidere, come dimostrano i crescenti femminicidi che stanno funestando il 2021.

Questo tema affonda le radici nel ragionamento di Simone de Beauvoir nel Secondo sesso, quando sostiene che “Vi sono maschi che temono la concorrenza femminile”; inoltre evoca la premessa necessaria di tutto il libro, ossia che la donna “si determina e si differenzia in relazione all’uomo, ma non l’uomo in relazione a lei; […]. Egli è il Soggetto, l’Assoluto: lei è l’Altro”.

A sostegno della sua tesi e per analizzare il timore maschile nei confronti delle donne, Doyle chiama in causa delitti agghiaccianti, classici della letteratura o libri con meno longevità, serie TV, capolavori della cinematografia e film con minori pretese, suddividendo il saggio in più parti dedicate a temi caldi come quello della pubertà, della verginità e della seduzione, senza dimenticare le streghe, fondamentale capitolo che contiene l’intensa perorazione finale dell’autrice.

L’idea che gli uomini possano aver sempre temuto le donne suona ridicola per stessa ammissione dell’autrice, eppure se pensiamo all’atavico tabù delle mestruazioni riusciamo a vedere questo timore in modo più concreto: Plinio, per esempio, scrisse che “per i maschi i rapporti sessuali sono rovinosi e funesti” nel caso la donna sanguini, e che se una donna incinta calpestasse del sangue mestruale abortirebbe; inoltre in molte culture si faceva in modo che in quei giorni la donna non toccasse terra o piante, alimenti o bambini.

L’autrice mostra una moltitudine di figure femminili del cinema horror per inquadrare quella che ricorre più spesso: la dead blonde di Psycho, dei Segreti di Twin Peaks, persino di Final Destination, per capire perché sia lei la vittima di penetrazioni violente ‒ che sia un coltello o l’organo sessuale dell’assassino, si tratta di un gesto che viola i tessuti, che umilia la volontà, che uccide.

Sady Doyle indaga inoltre sul perché sia il genere horror che il true crime piacciano così tanto alle donne.

“E perché non dovremmo? Perché le donne non dovrebbero essere ossessionate dal bisogno di comprendere la violenza sessuale se quella violenza ha così tanto potere sulle loro vite?

Amanda Vidary, coautrice dell’indagine sulle recensioni ai libri di true crime, ha rilevato che le donne sono particolarmente affascinate da quelle storie in cui è un modo per sopravvivere ‒ la vittima che è riuscita a scappare o l’assassino che sceglieva le proprie prede in base a criteri ben determinati. Forse potrebbe voler dire che guardano true crime in cerca di consigli utili. Che sia nella realtà o nella finzione, tutte noi vogliamo essere la final girl”.

Doyle si concentra sul tema della sessualità femminile, che percorre sin dalla pubertà fino all’età adulta, quando la libertà sessuale di una donna diventa una vera e propria minaccia, ecco perché l’autrice fa un excursus di miti e leggende in cui la donna assume le forme di un mostro: le sirene dell’Odissea, la fata Melusina dal corpo di serpente, o ancora Geraldine, un personaggio di Coleridge che si caratterizza per essere sessualmente ambigua.

A voler estendere l’indagine alle donne transgender e a quelle nere, andiamo oltre l’immaginario delle leggende e ritroviamo orrende pagine di cronaca, dove si pone l’accento sulla differenza di trattamento che esiste per esempio negli Stati Uniti tra gli uomini che hanno ucciso prostitute e donne che si sono difese dalle aggressioni uccidendo il proprio aguzzino (spoiler: agli uomini l’ergastolo, alle donne la pena di morte, specie se nere).

Oltre alle mestruazioni, Doyle esplora anche il tema del parto, il momento nel quale l’evidenza della capacità riproduttiva femminile è all’apice:

“Gli uomini hanno cercato con tutte le loro forze di appropriarsi di questo potere: la caccia alle streghe, le scuole di medicina, le leggi antiaborto sono tutte misure messe in atto per restituire la riproduzione nelle loro mani. Ma ciò che avviene in un corpo durante la gravidanza non potrà mai essere governato da leggi o imbrigliato dalla tecnologia. Neanche le persone in possesso di quel corpo ne ha il controllo […] il bilancio delle vittime tra le persone incinte è di circa ottocentotrenta al giorno. […] sopravvivere al parto, come ogni altra forma di sopravvivenza, è un privilegio”.

Quindi l’attenzione si sposta sulla figura della madre come essenza dell’autodeterminazione femminile, e sul percorso che dalla divinità femminile ha portato alla definizione del patriarcato, al binarismo su cui si fonda, insieme alla necessità della famiglia tradizionale, in un excursus che tocca la mitologia greca, la storia romana e l’etimologia della parola mater, che evoca la materia.

Tutto il saggio procede così, in una modalità che diremmo enciclopedica, dando vita a un discorso fluido ‒ non privo di una visione a tratti parziale ‒ sulla corrispondenza tra l’immaginario legato al femminile e certi comportamenti sociali reiterati in vari modi nelle varie epoche storiche, dalla scrittura semplice e dal tono sarcastico e ironico.

Con la stessa ironia, Doyle compila una nutrita lista delle fonti cui ha attinto e di tutte le opere che menziona, fornendo così molti spunti per continuare ad approfondire il motivo del mostruoso femminile, che non mancherà di lasciare interrogativi né di fornire strumenti per interpretare gli schemi ricorrenti e orrifici che si perpetuano a danno delle donne.

Lorena Bruno