Frutto della cultura “afropolitan”,  il libro di Taiye Selasi, La bellezza delle cose fragili, Einaudi, 2015, ci offre un mondo a cavallo tra due culture, quella africana originaria e quella americana: con identità a più facce, in crisi e in conflitto. Il libro intenso e originale di Carla Lonzi,“ Vai pure-Dialogo con Pietro Consagra”, edito tra gli Scritti di Rivolta femminile nel 1980, ripubblicato da et al. nel 2010, tuttora attualissimo, è la registrazione del dialogo tra una donna e un uomo nella crisi della relazione di coppia. Il libro di Dolores PratoGiù la piazza non c’è nessuno”,  edito nel 1980  da Einaudi con molti tagli, è stato riproposto in forma integrale da Edizioni Quodlibet nel 2009: narra  la vicenda di una donna segnata dall’abbandono materno.

La dimensione dell’assenza permea ogni relazione, ogni sguardo sul mondo e anche lo sguardo, o la mancanza di sguardo, che il mondo avrà su di lei.

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SelasiTaiye Selasi
 “La bellezza delle cose fragili
Einaudi,  2015

Il mondo in un romanzo afropolitan

Nata a Londra da padre ghanese e madre nigeriana,  cresciuta in Massachusetts, laureata a Oxford, attualmente “pendolare” tra Amsterdam e Roma, Taiye Selasi è la perfetta esponente di quella che lei stessa ha definito cultura “afropolitan”.

Fuori dal gergo significa appartenere in posizione privilegiata a più mondi e culture; mantenere un legame con i paesi africani delle origini familiari, ma passare la propria vita su scacchiere diverse, là dove ci si sente a casa.

La “casa” non coincide necessariamente con la nazione d’origine che spesso incorpora nel concetto stesso di nazione la possibilità di sopraffazione, guerra, violenza.

L’insieme di appartenenze rilevanti e positive  costituiscono il patchwork di identità molteplici. Identità dinamiche e protese ai raggiungimento di obiettivi vitali  sono anche quelle dei personaggi del suo libro che si muovono tra America e Africa.

Diaspora e ricongiungimento

Muore in Ghana nell’incipit del romanzo Kweku, il medico protagonista, esponente della prima generazione della “diaspora”.

Diaspora che ha che fare con la condizione di miseria individuale in molti casi, in altri con una storia di guerre civili che perpetuano razzismo e genocidi.

La storia collettiva permea le vite dei protagonisti e ne orienta il destino.

Ambizione e  talento hanno permesso a Kweku di raggiungere il successo negli Stati Uniti ma un drammatico evento lo mette di fronte di nuovo alla debolezza ancestrale che si porta dietro e lo scalza dalle sue certezze.

Nel trauma che ne consegue, abbandona la famiglia, la moglie Fola e i quattro figli e tornerà poi in Ghana. Fola lo chiuderà fuori dalla propria vita. I quattro figli, il maggiore medico come il padre, i due gemelli maschio e femmina belli e feriti e l’ultimogenita alle prese con i suoi fantasmi di inadeguatezza, si disperdono.

Si riuniranno in Ghana ( dove anche la madre è andata ad abitare)  proprio in occasione del funerale del padre. La circostanza, pur dolorosa, sarà per ciascuno di loro una sorta di catarsi rispetto al trauma comune dell’abbandono e rispetto ai loro demoni individuali.

Fragile è la bellezza

Ma oltre ad una storia coinvolgente e drammatica, il libro presenta una stratificazione di significati: la metafora delle “cose fragili” è la metafora della vita stessa, al contempo fragile, dolorosa e appassionante.

Ma fragili e insieme potenti sono anche i sentimenti, la bellezza degli elementi naturali, gli oggetti quotidiani che si legano al nostro destino, senza che ce ne rendiamo conto (come le pantofole del protagonista).

Metafora della bellezza ferita sono i due gemelli, stuprati nell’animo dallo zio violento, cui potremmo attribuire le caratteristiche del potere corrotto e dittatoriale che purtroppo si ripete in tanti stati dell’Africa mentre Fola ne rappresenta l’anima generosa, coraggiosa  e resiliente che sa coniugare dolore e gioia di vivere.

I tempi della vita

Anche lo stile presenta più di un motivo d’interesse. Vi è nel libro di Taiye Selasi un continuo andirivieni temporale in cui tutti i tempi psichici e narrativi sono continuamente presenti: si riattualizza il passato mentre il presente germina la forza di ciò che verrà.

L’autrice evoca un cameramen virtuale che vede la storia dall’esterno ma è in grado di cogliere i pensieri dei protagonisti in un continuo flusso di coscienze in cui i dialoghi sono pochi e scarni, posti solo in momenti cruciali insieme a parole chiave che orientano la narrazione. Molti i termini e i richiami alle leggende proprie delle lingue e delle tradizioni delle etnie dei genitori in particolare quella yoruba della madre.

Un libro potente e insieme commovente.

Marilena Salvarezza 


LonziCarla Lonzi
Vai pure-Dialogo con Pietro Consagra”
Scritti di Rivolta femminile, 1980

ripubblicato da et al., 2010

Qualche giorno fa abbiamo riparlato di Carla Lonzi alla Casa delle Donne in uno degli eventi di motivazione alla lettura di autrici.

Lonzi è stata  una scrittrice lucida, impegnata a riportare nelle parole  scritte immediatezza e autenticità, e una grande teorica del neofemminismo italiano, autrice di testi che sfidano il tempo.

Ora i suoi “libretti verdi” (Manifesto di Rivolta Femminile, La donna clitoridea e la donna vaginale, Sputiamo su Hegel, Taci anzi parla) sono in vendita presso la Libreria delle donne di Milano, che ne ha l’esclusiva.

Purtroppo si trovano in giro – nelle biblioteche, nel web – non molte copie del suo testo “Vai pure – Dialogo con Pietro Consagra”, che era stato ripubblicato nel 2010 dall’editore et al. e oggi è difficile da ripubblicare, dopo la morte dell’editore.

E’ una grave mancanza, a cui speriamo che si potrà, in qualche modo, porre rimedio nel prossimo futuro. Intanto, proponiamo una breve recensione di  questa opera così importante e originale.

Carla Lonzi e il suo compagno, lo scultore Pietro Consagra, hanno registrato per quattro giorni i loro colloqui, in un momento di crisi del loro rapporto, sfociato poi in una separazione.

Il libro contiene la trascrizione di queste registrazioni, nelle fasi più significative.

Ne risulta un testo scritto che mantiene le caratteristiche dell’oralità e che rispecchia dal vivo la relazione tra una donna – che dedica la propria vita alla pratica di un femminismo radicale – e un uomo, artista affermato e portato a contare sul supporto emotivo e mentale e sulla stima  di lei. Il loro conflitto resta  acuto nonostante anni di vita e di dialogo comune; in questi giorni lei ne è pienamente consapevole, tanto da poter dire al suo compagno: “Vai pure”.

Riportiamo qualche passaggio di questo confronto.

Carla – Non avevi bisogno di me, in quelloccasione, ma di una che ti facesse da spalla nel ruolo in cui gli altri ti vedono.

Pietro – Allora ti debbo dire dove sta il punto. Un artista è fragilissimo e diventa sempre più fragile e ha bisogno attorno di un alone favorevole, che è quello che tu dici cortigianeria, ha bisogno di questo clima qui. Appena appena lartista é disturbato in questo suo clima deperisce, si deprime, si sconvolge, perde completamente lequilibrio.

Se accanto c’è una persona che non ha riguardo di questo lato, lartista non può vivere. Se è posto sempre nella condizione di non poter usare di questo tipo di alone, lartista, guarda, non ce la fa. Non ce la fa ad andare avanti. Ora tu sei quella che non vuole questo alone, tende continuamente a soffiarci su perché scompaia.

Il dissidio nostro è proprio lì, e siamo stati molto insieme per un miracolo: di affettuosità, di passione umana, di interessi intellettuali, di curiosità, di sessualità… È un miracolo.

C – Anche di tenacia mia… Parli di voler bene, di amore… Non so se lhai detta ora questa parola… E poi parli della tua fragilità senza minimamente pensare alla mia fragilità, senza fare più mente locale sul fatto che tu chiedi a una persona che sta in piedi da se stessa, non sorretta da nulla, perché a me non mi sorregge nulla……

Non ho riconoscimento sociale, non ho ruolo… Proprio vivo in equilibrio con altre poche donne altrettanto non sorrette di me.

Quindi la mia situazione non posso neanche dirla fragile perché hai adoperato questa parola per indicare la tua fragilità di persona riconosciuta, pagata, omaggiata… Una delle domande che le donne si pongono arrivati a un certo momento della loro esperienza con gli uomini, e che cos’è questo amore delluomo per loro.

A me è venuta quando ho capito che tu non tenevi per niente conto della mia situazione difficile.   Nel rivendicare le difficoltà della tua era come se tu avessi dimenticato, ti fossi dissociato totalmente dalle difficoltà della mia situazione. E questo rivendicare i tuoi bisogni, che ai miei occhi sono dei privilegi che si basano poi su dei rapporti inautentici, mi faceva pensare che la comprensione o la partecipazione che avevi dimostrato alle mie scelte, al mio andare per una certa strada non significasse più niente per te. Ho visto proprio le strade che si biforcavano: tu che andavi per quella via della quale parlando insieme ti  avevo fatto vedere tutte le carenze umane, però poi la volevi percorrere lo stesso, abbandonando me sullaltra strada. Allora mi chiedevo lamore delluomo cos’è. Non è niente. Dovrebbe essere unuscita dalla solitudine, una partecipazione a qualcosa in comune.

P – Infatti quand’è che c’è la crisi dellamore? Quando si incominciano a dissociare i propri interessi dallinteresse del partner.

C – Allora vuol dire che lamore prima cera, adesso è finito.

P – No, vuol dire che cambia, viene una situazione più critica, perlomeno a noi accade questo. Tu prima citavi la frase di Heghel, com’è?

C – “La donna irride luomo pensoso che in età avanzata pensa e cura solo luniversale”. O pressapoco.

Difficile per una donna non ritrovare in queste parole l’eco di un conflitto che spesso si sperimenta nei rapporti con uomini. Mentre lavoravamo su queste pagine per preparare l’evento alla Casa delle Donne, Rossana, Angela ed io, con l’appassionata e competente collaborazione di Irene Quartana, ci ritrovavamo spesso in sintonia con Carla Lonzi e tra di noi.

Vittoria Longoni


PratoDolores Prato
Giù la piazza non c’è nessuno”
Edizioni Quodlibet 2009

Il libro è stato sempre circondato dalla fama di essere stato un caso editoriale: pubblicato per la prima volta nel 1980, quando l’autrice era già ultraottantenne, da Einaudi e per iniziativa di Natalia Ginzburg che operò drastici tagli all’opera.

Dalle seicento pagine la Ginzburg lo ridusse a trecento, credendo fermamente nel valore dello scritto ma considerandolo prolisso per il mercato editoriale.

L’autrice lo disconobbe e affermò che l’unica versione era quella da lei proposta.

Oggi, la si può leggere integralmente nella veste editoriale di Quodlibet con l’illuminante introduzione di Giorgio Zampa che la ha curata.

Un altro elemento che dà al libro occasione di discussione è l’autrice stessa.

Dolores Prato, infatti, nonostante gli scritti di vario genere e di differente valore, in vita è stata considerata una outsider, priva delle prerogative per entrare nel novero delle scrittrici.

Piuttosto una ‘irregolare’, frequentatrice degli ambienti letterari presso i quali ha riscosso apprezzamenti quanto ostilità o indifferenza.

Lei non se ne curò, seguendo i mille sentieri verso i quali la scrittura la indirizzava. Un gruppo di estimatori ne salvò i manoscritti e oggi l’autrice arriva a lettori e lettrici con la sua imprevista scrittura e la densità del suo stile.

“Giù la piazza non c’è nessuno” è l’inizio di una filastrocca infantile che l’autrice completa a modo suo con quella dichiarazione di assenza che attraversa tutto il libro: “non c’è nessuno”. Infatti è la storia di una assenza, quella della madre.

Maria Prato dette alla luce la bambina a Roma, frutto di una relazione illegittima. Inizialmente dichiarata con un cognome differente da madre “che non consente di essere nominata”, fu successivamente riconosciuta. Data a balia, venne poi affidata ad una coppia di cugini della madre che vivevano a Treia, in provincia di Macerata.

Con loro vivrà fino ai diciotto anni ed è quel vissuto che forma il tessuto e contenuto del libro insieme alla grande assente, la madre.

O meglio, la dimensione dell’assenza, che permea ogni sensazione, ogni relazione, ogni sguardo sul mondo e anche lo sguardo, o la mancanza di sguardo, che il mondo avrà su di lei.

Lo zio, chiamato ‘zizì’, è un parroco dallo spirito libertario, eclettico in creatività e un viaggiatore dell’universo. Sarà un riferimento solido per la bambina, il suo pigmalione discreto e mai oppressivo, la sua enciclopedia, un paio di lenti colorate con le quali guardare lontano tra le stelle. Si daranno del ‘voi’ in una relazione affettiva che sa di distanza, di rispetto, di profondità:

Zizì aveva qualcosa di Cagliostro, della sua parte meravigliosa, non certo di quella furbesca. Non era un mago,…, ma studioso, sperimentatore di cabale, di unguenti per la perpetua salute, lo era; in tante cose fu precorritore di questa nostra epoca che lui aveva così lontana. Un complesso uomo a se stante, non era un prete tra i preti”.

Ma la bambina, chiusa nel suo bozzolo di assenza materna, ha il suo specifico sguardo con il quale osserva persone, ambienti, il paese e i paesi circostanti, la campagna.

E tutti li presenta con dovizia di particolari, con una capacità introspettiva che dipinge i personaggi della piccola provincia e della campagna marchigiana nelle loro relazioni codificate dell’inizio del Novecento.

Descrive case, utensili, botteghe, parrocchie con particolari a volte esageratamente dettagliati, ma immerge chi legge in un mondo perduto, recuperandone la storicità e lo spirito.

La zia, personaggio etereo, misterioso e distante all’inizio del libro, si fa sempre più presente e intenso:

Un precipizio interiore, un che di non concluso che veniva da lontano”

Non so se la zia patisse per unastinenza recente o già attempata, certo che annegava in un incantesimo di natura ignota. Donna trasognata, pareva vivere con una presenza a noi occulta. Quando andava per il paese guardava, per lo meno avanti a sé, ma pareva che non vedesse. Fuori di sé forse lo era solamente con un libro in mano; a meno che lo leggesse proprio per confrontarlo col suo dentro; per trovare in quelle pagine la voce sua nascosta per dialogare con quelle voci stampate”.

L’affetto tenue e secondario rispetto a quello per lo zio, recupera in intensità nella prima giovinezza. Man mano che la bambina svanisce lentamente nell’adolescente, la zia sembra accorgersi di lei.

La agghinda, la segue nelle scelte scolastiche, comincia ad amarla:

…Ho ripetuto che non seppe adattarsi a me bambina, è vero, ma non lho mai condannata per questo. Che obbligo aveva lei, priva di tenerezza per i bambini, a camuffarsi da balia e da istitutrice? Via via che crescevo, che finivo di esser bambina, lei mi amò… . In silenzio cominciava ad amarmi; continuò ad amarmi sempre più e con tanto spirito di sacrificio quanto le madri non sempre hanno”.

La sua eleganza affascina la nipote:

La sua leggerezza nellincedere, quel connubio tra lei e laria, la sua eleganza nel vestire e in tutta la persona”.

Come si può notare lo stile, considerato non letterario negli ambenti coevi alla scrittrice, è intensamente evocativo e si avvale di un’intimità originale tra il parlato e il descrittivo, tale da rendere originalissima la scrittura che in nessun tratto risulta sciatta o troppo consumata ma densa e accurata.

Il padre non ha importanza. Ela madre che, respingendoci dal suo corpo, ci dette vita. Se ci lasciò raccoglierci da altri è madre negativa, se ci tenne con sé è positiva. Sotto forma amorosa, oppure ostile, anche sotto quella dellassenza, la madre fisicamente è presente”.

Angela Giannitrapani