Eccoci ormai in estate con un bel testo filosofico molto scorrevole, Chiara Zamboni, Sentire e scrivere la natura Mimesis 2020, che unisce corpo e pensiero, soggetto umano e natura; e con due intensi libri di narrativa: Anilda Ibrahimi, Il tuo nome è una promessa, Einaudi, Torino 2017, che segue la vicenda di una famiglia per più generazioni, in Albania, Italia e America, tra persecuzioni, migrazioni e nuove integrazioni; e Margherita Giacobino, Il tuo sguardo su di me. Mondadori 2020, ricostruzione autobiografica esemplare di un rapporto tra madre e figlia particolarmente ricco e positivo.
Restiamo in contatto anche per il periodo estivo, le nostre puntate proseguiranno, potrete leggerci e scriverci all’indirizzo librarsi@casadonnemilano.it.
Buona estate e buone letture!
Chiara Zamboni
Sentire e scrivere la natura
Mimesis 2020
Una scrittura intensa, filosofica e a tratti poetica, esplora in questo libro il rapporto tra il soggetto (in particolare un soggetto femminile) e il complesso vivente della natura in cui siamo immerse/i, che ci avvolge e che avvolgiamo.
Per questo la relazione con la natura viene prima della dicotomia soggetto/oggetto: ne facciamo parte, ne siamo nutrite/i e ne possiamo parlare, unendo il sentire e il pensare.
Il tema del rapporto con la natura è stato posto con evidenza dalla catastrofi ambientali e dai movimenti ecologisti, che hanno rivolto a tutta l’umanità critiche e domande non più eludibili.
E’ un terreno che comporta riflessione in vari campi e impegno nel mondo, e invita a rinnovare la filosofia.
Sentire ed esprimere – in parole dette o scritte, o in opere d’arte – la natura: in questo processo metamorfico sono incluse sensazioni ed esperienze, forme di sessualità e lavoro sul linguaggio. In questa direzione aprono e mostrano la strada soprattutto Anna Maria Ortese, con le sue opere in cui si fondono riflessione e invenzione narrativa; poete come Ingeborg Bachmann; pensatrici come Maria Zambrano e pensatori come Maurice Merleau-Ponty.
Il sentire si radica nell’inconscio; ogni sensazione nasce già impregnata di vissuti passati.
Dalla conclusione del libro: “Ciascuno è un individuo, un soggetto, cioè quasi tutto per sé e quasi nulla per l’universo, un frammento infimo e malato dell’antroposfera; ma qualcosa di simile a un istinto inserisce ciò che di più intimo c’è nella mia soggettività all’interno di questa antroposfera, mi lega cioè al destino dell’umanità… Noi partecipiamo a questo insondabile, a questo incompiuto così fortemente intessuto di sogni, di dolore, di gioia e d’incertezza, che è in noi come noi siamo in esso…”
Chiara Zamboni è docente di Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Verona e fa parte da decenni della comunità filosofica Diotima. Ha pubblicato molti testi, tra cui “Parole non consumate: donne e uomini nel linguaggio” (2001), “Pensare in presenza: conversazioni, luoghi, improvvisazioni” (2009), “ Il male in Simone Weil e Hannah Arendt” (2017). Frutti di un’intensa e innovativa ricerca filosofica, connotata al femminile.
Vittoria Longoni
Anilda Ibrahimi
Il tuo nome è una promessa
Einaudi, Torino 2017
Dalla lingua madre a quella del paese ospitante
Il libro racconta le vicende di generazioni storiche diverse, legate da vincoli familiari. C’è un’alternanza complessa di piani e di tempi narrativi gestiti con naturalezza e abilità. Anilda Ibrahimi scrive direttamente in italiano, lingua del paese dove ormai vive e, con altri autori e autrici, contribuisce ad una letteratura “italofona” che offre un nuovo sguardo sul paese ospitante e ne riplasma la lingua.
Essere ebrei nell’Albania del 1938
Al centro della narrazione una vicenda purtroppo tragicamente ricorrente, la fuga di una famiglia ebrea da Berlino nel 1938, durante la dittatura hitleriana, ma che si svolge in un luogo insolito, l’Albania di re Zog, personaggio insolito quanto misconosciuto. L’Albania è un paese verso cui gli italiani (e forse non solo) hanno sempre nutrito un profondo e aperto pregiudizio considerandolo povero, arretrato e delinquenziale e lo hanno associato durevolmente a un singolo momento drammatico della sua storia, l’esodo di massa all’inizio degli anni ’90 del Novecento durante il tracollo del regime comunista di Hoxha.
Il libro ci permette di vedere la nazione albanese in ben altra luce, in periodi storici diversi. Una Albania che sotto il regno di Zog ospita gli ebrei in fuga, i cui governanti non li denunceranno mai agli invasori nazisti perché hanno una cultura ancestrale dell’ospitalità senza condizioni, il cui rispetto ha portato numerosi cittadini nei campi di concentramento. Un’Albania del passato e dell’infanzia cui Anilda Ibrahimi ha rinunciato tanto tempo fa ma che sente ancora scorrere nelle vene con la sua ricchezza di riti, tradizioni, filastrocche, modi di dire.
La mamma ebrea di Esther e Abigail, stringe legami di amicizia profonda con una donna albanese, Lule, che pur mussulmana, professa l’ecumenismo religioso proprio della comunità albanese, crocevia di dominazioni e religioni diverse. Le donne del romanzo, anche se in una società patriarcale, riescono a reggere le fila della famiglia, ad essere vive, forti e solidali.
Sarà Lule a trovare alla famiglia ebrea un rifugio durante l’invasione tedesca del 1943, ma la loro figlioletta più piccola, Abigail, viene deportata, insieme al capofamiglia che la ospita. Torneranno entrambi a guerra finita e sarà proprio Lule a fare da madre alla bimba. Abigail non saprà più nulla della sua famiglia di origine.
Una nuova generazione e una nuova Albania
Molti anni dopo nell’Albania contemporanea arriva Rebecca, figlia di Esther, direttrice di una ONG per lo sviluppo del paese, nata alla caduta della dittatura di Hoxha.
A New York Rebecca ha lasciato la figlia, il marito con cui è in crisi e la madre. Andi, il suo assistente, la guida in una Albania che da un tumultuoso e complesso passato cerca di costruire un nuovo presente.
Dalle dominazioni e dalle dittature che hanno come tratti comuni la negazione della libertà individuale e collettiva nasce con fatica una democrazia.
Caduto il dittatore comunista, anche Abigail, malmaritata a un uomo violento, pusillanime e acritico esponente di regime, se ne va con i due figli in Italia.
Fili che si riannodano
Le scelte individuali si saldano ai destini collettivi nella conclusione, chiudendo Il cerchio del tempo e delle generazioni. Rebecca e Thomas danno una nuova chance al matrimonio; Thomas realizza un film che ripercorre la vicenda della famiglia della moglie e durante la proiezione a Roma, una foto del film che ritrae le due sorelle, sopravvissuta a drammi e distruzioni, sarà l’occasione dell’incontro tra Rebecca e la cugina Joanna, figlia della zia Abigail.
Fili spezzati possono riannodarsi, passato e presente trovare una nuova coesistenza.
La storia ha interrotto brutalmente legami di sangue e la vita li riannoda.
Un romanzo potente e lirico capace di rappresentare l’intreccio, in alcuni momenti drammatico, tra grande storia e micro storie: i legami di sangue spezzati brutalmente dalla storia dei potenti, sono riannodati dalla vita riparatrice.
Marilena Salvarezza
Margherita Giacobino
Il tuo sguardo su di me.
Mondadori 2020
Nell’esordio del romanzo è lo sguardo della figlia che si presenta a chi legge.
Attraverso lei si vede la mamma, alta, che in un flessuoso movimento sale i gradini della scala che sovrastano la bambina.
E’ come un’ istantanea che fotografa il corpo della madre e la relazione primaria con la figlia. Una mamma di grande fascino ed energia, che si offre come esempio di forza e di autonomia e dona alla bambina il proprio sguardo autorevole e amorevole, carico di fiducia e di riconoscimento.
Una carica propulsiva che l’autrice porta con sé per tutta la vita e la sorregge nelle vicende della crescita e della maturità.
La madre dimostra grande comprensione e rispetto; rifiuta la retorica dei sentimenti, come è proprio dell’understatement della cultura popolare degli anni ’70 del Novecento; é talvolta spigolosa ma capace di ironia, di crescita intellettuale, di apprezzamento.
La madre è stata allevata coralmente da tante figure femminili che costituiscono il sostrato identitario, insieme al dialetto, anche per Margherita Giacobino.
Il dialetto, crudo, essenziale, sincero e quotidiano diventa lingua primaria e plasma anche la rappresentazione dei sentimenti, contenuta e pudica.
Questo gruppo materno con al centro la mamma era portatore dell’ “l’intelligenza del bene”, che si realizza quando cuore e mente procedono all’unisono.
La madre – rievocata nei ricordi d’infanzia come figura solare – attraversa con grande dignità e apertura mentale gli sviluppi della sua esistenza nei decenni, in una relazione ininterrotta con la figlia: un dialogo fatto anche di viaggi condivisi, di situazioni comprese e non comprese, soprattutto per quanto riguarda la figura controversa del marito e padre. Mentre la figlia conosce i libri e la cultura, i suoi vari lavori, il femminismo e l’amore e l’amicizia e i conflitti con altre donne, la madre a modo suo cresce con lei, tra cambiamenti di case e di attività, e nuovi rapporti. Fino agli anni della vecchiaia, della malattia e della morte, quando la mamma rivela anche le sue fragilità inevitabili.
Il rapporto potrebbe rovesciarsi e in effetti s’inverte, ma la figlia resta a lungo smarrita di fronte alla morte della madre.
Riconosciamo nella scrittura di questo libro – che potremmo definire di “narrativa autobiografica”- lo stile nitido di Giacobino che fa rivivere personaggi ed episodi della propria vita con rara efficacia. Il libro ha avuto una lunga gestazione, nella difficile ricerca di un equilibrio narrativo, nella scelta di ciò che andava messo e omesso in un rapporto di verità.
La scrittrice ha limato il testo per togliere ogni sbavatura sentimentale, fino alla scelta di rivolgersi direttamente alla madre con il tu dialogico.
Essa è persona reale e insieme ha la dignità di un personaggio letterario.
Il tema è ancora centrale nel dibattito femminista, oscillando tra due opposti poli.
Da una parte c’è la narrazione della “grande madre”, originaria e potente, dall’altra c’è l’anti-materno, la richiesta di tagliare il cordone ombelicale, di opporsi alla mamma reale. In questo aut aut Margherita Giacobino non si è mai riconosciuta: lei stava bene con la madre, l’apprezzava come persona, trovava interessante il confronto.
Acquisire autonomia non è tanto contrapporsi alla madre, ma piuttosto saperla guardare, in modo staccato, amoroso e riconoscente, fino ad accoglierla nei suoi doni, nei suoi limiti e nella sua complessità.
E’ la premessa per uno sguardo reciproco e amorevole fra tutte le donne.
Marilena Salvarezza e Vittoria Longoni