Il libro autobiografico Dove non mi hai portata. Mia madre, un caso di cronaca (Einaudi, 2022) di Maria Grazia Calandrone testimonia la sua ricerca, di bambina abbandonata a otto mesi dai genitori che poi si sono suicidati insieme, rivolta a ricostruire e a valorizzare la figura della madre naturale in tutte le difficoltà della sua vita.
Il testo di Marta Correggia, magistrata a Caserta, Il mio nome è Aoise. Prefazione di Alex Zanotelli (Vanda edizioni, 2022) ripropone in forma narrativa la tragedia della tratta e della prostituzione forzata delle donne nigeriane.
Pina Mandolfo, scrittrice e regista, nel romanzo storico Lo scandalo della felicità. Il caso della principessa Valdina di Palermo (Vanda edizioni, 2022) ripercorre la vita e la tenace resistenza di una donna nobile che nel Seicento ha subìto da giovanissima la monacazione forzata, ma non si è mai rassegnata al sopruso e in età avanzata ha ritrovato la libertà.
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Buone letture e buona fine estate!
Maria Grazia Calandrone
Dove non mi hai portato. Mia madre, un caso di cronaca
Einaudi, 2022
Il caso della bambina di otto mesi, abbandonata su un plaid a Roma nel Parco di Villa Giulia, della successiva scomparsa e suicidio dei suoi genitori e dell’adozione da parte di una coppia romana aveva fatto molto scalpore all’epoca, nell’estate del 1965. I giornali ne avevano parlato con titoli che quasi sempre rispecchiavano gli stereotipi, le critiche pregiudiziali, le colpevolizzazioni della mentalità dell’epoca.
Quella bambina ora è la nota poeta, drammaturga, artista visiva e conduttrice radiofonica Maria Grazia Calandrone, che porta il cognome del padre adottivo, attivo militante del Partito Comunista Italiano.
La scrittrice aveva già narrato in forma prevalentemente poetica il suo complesso rapporto con la madre adottiva, tra amore intenso e gravi incomprensioni e fratture dovute soprattutto ai sensi di colpa, nel testo Splendi come vita (Ponte alle Grazie, 2021). In questo ultimo libro, che è risultato terzo nella cinquina finale del Premio Strega di quest’anno, Calandrone ricorre ancora a forme poetiche, ma più di rado.
La figlia – pienamente adulta e madre a sua volta di due ragazzi, un maschio e una femmina adolescente – si mette a cercare con tenacia i pochi resti che le possono rivelare la vita e i sentimenti della madre naturale. Fotografie, documenti, lettere, conversazioni con persone che l’hanno conosciuta, ricognizioni di luoghi e di ambienti, lavoro di scavo sui molti misteri della morte dei due genitori, rilettura di tutti i quotidiani dell’epoca, ragionamenti complessi e ricostruzione di possibili stati d’animo fanno riemergere poco a poco la figura della donna che l’ha generata (Lucia Galante), oppressa da un ambiente che nega la libertà femminile e la costringe al matrimonio con un uomo violento e impotente.
Successivamente Lucia Galante vive una storia d’amore con un uomo più grande, ma lo stigma dell’adulterio e dell’abbandono della casa coniugale pesano sulla coppia provocando anche un’estrema difficoltà nel trovare lavoro. Si pongono così le premesse della tragedia che si consuma a Roma il 24 giugno 1965 e nelle ore successive.
La coppia si preoccupa però di garantire alla bimba, che non possono crescere personalmente, un avvenire sereno. Le modalità dell’abbandono puntano a creare clamore e interesse intorno alla piccola orfana. Una lettera recapitata dai genitori alla sede romana dell’”Unità” prefigura il suo futuro affidamento a una coppia attiva nell’ambito della sinistra romana.
Maria Grazia Calandrone riesce rivalutare completamente la figura della madre, a comprendere a fondo le sue difficoltà, le insidie degli stereotipi diffusi contro le donne che escono dagli schemi patriarcali, la scelta di amore che stava anche dentro la decisione dell’abbandono/affido ad altri della bambina di otto mesi.
Nella sua ricerca appassionata e competente, che a volte assume la forma dell’inchiesta indiziaria, l’autrice è affiancata con entusiasmo dalla propria figlia – che sa proporre le ipotesi più convincenti – e aiutata dal figlio.
Pochi libri riescono, come questo, a scavare nella vita di una donna e a rendere ragione delle sue scelte anche estreme. La figlia ricostruisce con passione e amore la figura della donna che l’ha abbandonata e poi si è tolta la vita, valorizzando con ciò anche la ragioni profonde della sua esistenza di persona, di artista e di madre.
Con lo stesso atteggiamento, nel testo pubblicato poco prima Maria Grazia Calandrone aveva messo a fuoco, compreso e rivalutato la figura della madre adottiva, ricorrendo alla poesia.
Sia questo testo, sia il precedente Splendi come vita possono aiutarci a comprendere le complesse dinamiche degli abbandoni e delle adozioni, mettendo in luce le difficoltà e i sentimenti di tutte le madri, naturali e adottive.
Vittoria Longoni
Marta Correggia
Il mio nome è Aoise
Prefazione di Alex Zanotelli
VandA edizioni, 2022
La scelta del romanzo consente all’autrice una maggiore libertà, ma i temi, i fatti e i contenuti sono purtroppo veri: sono le vicende delle molte donne vittime della tratta, in particolare in Nigeria.
L’autrice, Marta Correggia, ha conosciuto bene questa tremenda realtà, nel suo lavoro di magistrata esercitato per anni nella provincia di Caserta. Si è occupata soprattutto di sfruttamento della prostituzione, ha conosciuto molte di queste vittime che fa rivivere narrativamente costruendo il personaggio di Aoise. Ragazze africane attratte dalla falsa promessa di una nuova vita più libera e di un lavoro dignitoso per mantenersi in Italia. Prima della partenza devono sottoporsi a un rituale magico, che comprende il giuramento ju-ju. Un rito che accettano per tradizione e necessità, che però le vincola con un giuramento a ripagare il debito contratto per poter fare il viaggio e trasferirsi in Italia.
Dovrebbe essere un debito molto facile da restituire, ma una volta arrivate in Italia scopriranno che si tratta di un vincolo pesante come un macigno: per l’entità abnorme della somma da restituire e per la minaccia di terribili ritorsioni a sfondo magico contro di loro e le famiglie, se non lo faranno e se tradiranno il patto e la consegna del silenzio.
Dopo un viaggio faticoso e rischioso, scoprono che Il “lavoro” promesso con l’inganno è in realtà una forma tremenda di prostituzione, che si apre con un battesimo di violenza maschile, destinato a ripetersi. La protagonista della narrazione, Aoise, viene spogliata di tutto, anche del suo nome. Deve assumere un’identità falsa e nuova che annulla la sua dignità. Si sente in balìa di un potere estraneo, è oppressa dalle minacce che vengono dal rito ju-ju e dalla pesante oppressione della prostituzione coatta.
La sua vita è segnata da ricatti e paure ancestrali. Stenta a liberarsi dai sensi di colpa indotti dal rito ju-ju, a cui la tradizione la vincola.
Alcuni aspetti della vita nella comunità di origine sono narrati nel testo. Aoise cerca a fatica di fuggire, ma sono molte le insidie e molti i dubbi sulla via della liberazione e della denuncia. Il suo corpo, come quello delle sue compagne di sventura, è invaso e sopraffatto dalla violenza, dall’inganno, dalla negazione di sé.
Donne forzate ad assumere lo squallido travestimento che fa di loro delle puttane, semplici oggetti disprezzati a disposizione delle volontà e dei piaceri altrui.
Esposte all’insignificanza, alla ritorsione, all’uccisione violenta e al suicidio.
La vita poi può offrire ad Aoise e alle ragazze come lei anche delle vie d’uscita, delle relazioni solidali tra donne che contrastano il ruolo delle “madame” complici dello sfruttamento della prostituzione, in casi fortunati anche la nascita di sentimenti di amore autentico.
Possono ritrovare il loro nome e la loro dignità attraverso la denuncia, ma è un processo lungo, contrastato e delicato e sempre rischioso.
Alcune donne ex vittime della tratta sono venute anche alla Casa di Milano a raccontarci vicende di liberazione e anche amori autentici con ex clienti; il romanzo si conclude con un lieto fine. Ma quante di loro restano invece vittime indifese della violenza e dell’inganno? Il romanzo di Marta Correggia, che ne ha seguite tante sul piano umano e giudiziario, vuole aprire gli occhi di chi legge su questa tremenda realtà e sulla necessità di contrastarla con tutti gli strumenti possibili.
Vittoria Longoni
Pina Mandolfo
Lo scandalo della felicità. Il caso della principessa Valdina di Palermo
VandA edizioni, 2022
L’autrice, nota scrittrice, regista e sceneggiatrice, parte da un fatto storico avvenuto nella sua Sicilia, nel Seicento, e lo ricostruisce con cura attraverso i documenti d’epoca.
Arricchisce la trama con riferimenti a vicende seicentesche e con felici momenti di invenzione narrativa.
Anna Valdina, una delle quattro figlie di un principe palermitano, con la complicità passiva della madre sottomessa e della zia, a soli cinque anni viene affidata a un rinomato convento. Lei e le sorelle credono che si tratti di un affido temporaneo a scopo di educazione collegiale. In realtà, il padre vuole lasciare via libera ai suoi altri cinque figli, privando le quattro ragazze dell’eredità. Le bambine vengono illuse, condizionate e sacrificate alla vita monastica.
La vicenda di Anna richiama per molti aspetti la storia seicentesca della Monaca di Monza narrata nei Promessi Sposi. Ma, a differenza della Gertrude manzoniana, essa continua a pronunciare il suo “no” alla monacazione forzata. Assiste indignata alle ipocrisie del convento. Spera in un futuro cambiamento che la restituisca libera al “mondo”.
A dodici anni si deve arrendere e diventa novizia, ma nel suo cuore non si sottomette mai. Continua nei decenni a mandare alle autorità ecclesiastiche richieste di scioglimento dai voti. Il romanzo segue per cinquant’anni la sua tenace resistenza. Le sue infelici sorelle chiuse nei chiostri contro la loro volontà ne muoiono presto.
Al momento della pronuncia dei voti Anna Valdina deve sottoscrivere anche un atto di donazione di tutti i suoi beni al padre.
Le vicende della principessa monacata a forza si mescolano alla storia della sua famiglia e di tutta la società siciliana e palermitana, fino all’accoglimento della sua reiterata domanda di essere sciolta dal voto che le arriva, inatteso, all’età di sessantaquattro anni, nel luglio del 1699. Anna Valdina, ormai donna libera, torna nella nobile casa di famiglia, fiera della propria coerenza.
L’autrice conclude il suo lavoro di ricerca e di scrittura con queste parole:
“Il suo [di Anna Valdina] tempo è diventato il mio e quello di tante donne che, ieri come oggi, lottano per mettersi al mondo libere”.
Vittoria Longoni