Mentre l’estate già imperversa, coltiviamo interessi e stimoli leggendo una scrittrice argentina che dà una voce insolita ai drammi della sua terra, una ricercatrice che, studiando funghi, radici e robot, rivela tragedie e risorse dell’antropocene, infine la vita di una famiglia numerosa osservata dalla gatta di casa. Si tratta di Tunina Mercado, Io non ti ho mai promesso l’eternità (Alberobello, Poiesis, 2011); Barbara Mazzolai, Il futuro raccontato dalle piante (Milano, Longanesi, 2021); Olivia Ninotti, Sembrava un British invece era un Merdish. Diario intimo di una Scottish (Viterbo, Scatole Parlanti, 2022).
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Tunina Mercado
Io non ti ho mai promesso l’eternità
Alberobello, Poiesis, 2011
Tunina Mercado, voce autorevole della letteratura dell’esilio in Argentina
Tunina Mercado è una delle più significative autrici argentine. Nata a Córdoba nel 1939, vive fasi drammatiche della storia argentina tra Perón, Onganía e infine Videla. Nel 1966 dopo il primo colpo di stato, va in esilio in Francia fino al 1971.
Il ritorno in patria è di breve durata perché nel 1974, quando si prepara il nuovo golpe, si rifugia in Messico fino al 1987. Torna poi in Argentina, misurandosi, anche da punto di vista letterario – in particolare con il libro Stato di memoria –, con la difficile riconciliazione con la propria storia e il proprio paese.
Una letteratura che travalica i generi
Io non ti ho mai promesso l’eternità è un libro potente e ostico, che rompe con le convenzioni dei generi considerati limitanti dall’autrice e risponde a un modello di scrittura che comprende “fase musicale, fase compositiva, fase architettonica e infine processo di tessitura in cui tutti i nodi si legano”. Narrativa, diari, lettere, documenti sono tutti egualmente necessari per far emergere temi potenti e drammatici – quali esilio e memoria – che vanno alla radice della vicenda umana. La guerra, la persecuzione e l’esilio generano nei sopravvissuti traumi duraturi, rotture permanenti nella trama del reale che essi vogliono sia testimoniare sia tacere. In questa costante dicotomia alcuni si salvano altri soccombono. I traumi sono lacerazioni della vita psichica e solo una memoria riparatrice può ricreare un fragile tessuto connettivo. La struttura del libro rispecchia questa concezione riparativa ed etica della narrativa inserendo “live” gli elementi della ricerca accademica e personale della scrittrice che dilatano il nucleo iniziale.
La storia di Sonia e Pedro
Pedro, anche lui esule in Messico, porta a Tunina Mercado, traduttrice di professione, del materiale di sua madre Sonia – relativo alla fuga che lei fece da Parigi insieme al figlio bambino quando nella seconda guerra mondiale i tedeschi entrarono in città. Sonia era un’intellettuale ebrea di origine tedesca già “autoesiliata” a Parigi.
È alla ricerca del marito che, dopo la sconfitta nella guerra civile spagnola, è stato rimpatriato in Francia. Le sue note scritte in modo frettoloso e sintetico, raccontano il peregrinare di Sonia e del bambino e gli incontri che fanno, emblemi di un’umanità che non ha più da dove viene e non sa dove va. In questa deriva lo stesso Pedro si perde e ritroverà solo tempo dopo la madre.
Alla ricerca di ciò che è sepolto
Tunina Mercado, anche lei donna dell’esilio, si sente sollecitata da questa storia e va ben oltre un lavoro di semplice traduzione. La sua diventa una ricerca di ciò che non viene detto, di tutto ciò che di sommerso vi è dietro quelle poche righe e può rendere nuovamente viva l’esperienza di Sonia e di Pedro.
Lo scavo d’archivio, la ricerca fotografica, gli incontri con chi ha conosciuto i protagonisti si allargano come una tela palpitante fino a comprendere le genealogie familiari, le relazioni e il destino di Sonia.
Così, per esempio, da semplici accenni cifrati, Tunina Mercado rende plausibile l’incontro di Sonia con Walter Benjamin alla vigilia del suicidio di questi e ricostruisce un loro possibile dialogo che ha la potenza del reale.
Entrambi sono intellettuali che cercano nuove visioni del mondo e rifiutano la deriva hitleriana. Sonia e il marito per una fase abbracciano il comunismo e si pongono in rotta di collisione con la famiglia. Così i loro esili si moltiplicano: dalla famiglia, dal paese d’origine, dal paese in cui si sono rifugiati. Apolidi e in fuga, vedono franare tutto quello in cui hanno sperato.
Ritrovatisi, si rifugeranno in Messico costruendosi una nuova vita. Sonia diventa un’apprezzata artista ma il trauma primario non trova una ricomposizione duratura e, ad anni di distanza, si uccide.
La letteratura come salvezza dall’oblio e come autoindagine
Tunina Mercado, durante un lavoro che la riguarda in modo così stretto, andrà a conoscere in Israele i parenti superstiti di Sonia che le propongono nuove sfaccettature della sua figura e, attraverso le lettere alla figlia, ricostruirà anche la figura della madre, reduce dal lager e morta lontana.
Salvare dall’oblio qualcuno è per la scrittrice non solo un’operazione etica ma anche il senso della letteratura stessa che cerca di porre riparo alle rimozioni della storia e di rielaborare il senso d’identità.
Scrivere è portare a una nuova vita ciò che è stato sepolto e l’autrice è implicata con tutta se stessa in questa operazione: si ri-crea mentre fa rivivere.
La sua scrittura è insieme ipnotica e complessa perché deve dire l’indicibile, deve riannodare migliaia di fili che forse non arrivano a costituire un arazzo e non trovano un’armonia finale ma continuano senza fine a interrogare a far emergere nuovi strati di esistenza sepolte.
Scrivere, dice, è un moto di declino in cui si precipitano materiali inafferrabili.
Sono una valanga che trascina qualsiasi sistema voglia riunirli.
La scrittura dunque ha il compito quasi impossibile di organizzarli, nel mentre che si pone come uno strumento di autoindagine per chi scrive.
Marilena Salvarezza
Barbara Mazzolai
Il futuro raccontato dalle piante
Milano, Longanesi, 2021
Si chiamano plantoidi e sono ideati partendo dall’osservazione dei comportamenti della natura, in particolare dal comportamento delle radici delle piante, e delle loro mutue interazioni.
Servono per il monitoraggio del suolo (per esempio per segnalare la presenza di metalli pesanti), per l’agricoltura (livelli di acqua, azoto e fosforo), e per tante altre cose. I primi sono stati ideati dall’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) di Pontedera.
È una nuova frontiera della robotica, che, sebbene anch’essa produca inquinamento, dato che i robot senza elettricità non funzionano, può contribuire, almeno, alla tutela di suoli fin troppo abusati, e per favorire il ripristino e la proliferazione delle micorrize.
Che cosa sono le micorrize (dal greco mycos che significa fungo e rizha, radice)? Sono un’associazione simbiotica tra i due regni dei funghi e delle radici delle piante, iniziata, pare, circa 400 milioni di anni fa, fondamentale per la salute dei suoli e la riduzione del carbonio nell’atmosfera.
Sono un fattore determinante del buon funzionamento degli ecosistemi perché migliorano la struttura del terreno e soprattutto rappresentano un vero e proprio deposito di carbonio superiore persino a quello della restante vegetazione.
Tutte le trasformazioni indotte dall’uomo riducono fortemente la vegetazione sotterranea micorrizica, rilasciando il carbonio immagazzinato dalle micorrize nell’atmosfera.
Siamo infatti entrati purtroppo in una specie di girone dantesco: l’innalzamento della temperatura inibisce la formazione nel suolo delle micorrize, che smettono così di sequestrare il carbonio sotto terra, lasciando invece che si disperda nell’ambiente.
Prendendo esempio dal World Wild Web, ideato a Ginevra dal fisico inglese Tim Berners-Lee, qualcuno ha cominciato a definire la rete sotterranea creata dall’insieme di radici e funghi, o meglio ife fungine, Wood Wide Web. In pratica una rete biologica che aiuta le piante a comunicare tra di loro.
Gli alberi si servono delle micorrize, per esempio, per avvertirsi in caso di pericolo, magari dovuto a un attacco di insetti: l’allarme corre da un albero all’altro e le piante hanno così il tempo di attivare difese chimiche anti-insetto. Insomma, le piante si aiutano tra di loro e hanno sviluppato molto prima degli umani una rete di auto aiuto che corre attraverso messaggi chimici. Si tratta di studi che sono solo all’inizio e riserveranno dunque molte sorprese.
Il suolo che calpestiamo distrattamente, senza alcuna attenzione né cura, è in realtà invece un organismo vivo e brulicante di vita: particolarmente importante è il ruolo dei lombrichi, e dei batteri che fissano l’azoto atmosferico (N2) in forme chimiche più facilmente assimilabili dalle piante.
In un cucchiaio di suolo fertile ci possono essere da un milione a un miliardo di batteri che decompongono e trasformano in humus le sostanze organiche. Una menzione a parte, per la loro originalità, meritano i tardigradi, esserini visibili solo al microscopio che hanno dei veri e propri superpoteri: in caso di disseccamento dell’ambiente possono rimanere in uno stato di vita latente anche per lunghi periodi.
Ma gli animaletti più famosi e visibili che popolano la terra di sotto sono senza dubbio i lombrichi. Ingeriscono il suolo contenente detriti vegetali continuamente, lasciando il terreno sminuzzato e aiutando l’ossigeno a raggiungere le radici delle piante. Purtroppo sono in forte diminuzione, a causa anche, si pensa, dell’uso di macchinari pesanti in agricoltura. L’IIT studia dei piccoli robot lombrico. Il loro studio pare fondamentale soprattutto per trovare soluzioni nuove dal punto di vista energetico.
Petrolio, carbone e gas hanno rappresentato finora le principali fonti energetiche sulla terra.
Da dove traggono la loro origine? Dal mondo dei vegetali.
È una storia iniziata 350 milioni di anni fa, nel Carbonifero, un’era dove prevalevano le grandi foreste di conifere, come i pini, i cipressi, le sequoie, ma c’erano anche le cycas, assieme ai ginko biloba considerate fossili viventi.
Il fenomeno è avvenuto soprattutto grazie all’azione di particolari batteri anaerobici, che attaccano i tessuti delle piante morte, eliminando l’azoto e l’ossigeno ancora presenti, e lasciando il carbonio.
Durante il Cretaceo, circa 145 milioni di anni fa, la temperatura della terra aumentò di molti gradi, specie a causa dell’attività dei vulcani. Questo diede vita a un effetto serra che divenne particolarmente intenso attorno a 90 milioni di anni fa. Negli oceani si sviluppò il fitoplancton, microscopici vegetali unicellulari che dopo la morte si depositavano sui fondali. Sono loro che hanno dato origine al cherogene, il precursore del petrolio.
Queste fonti energetiche, proprio perché sequestravano il carbonio sottoterra, permisero un aumento dell’ossigeno nell’aria. Le piante sono dunque un potente serbatoio di anidride carbonica, che vanno ad aggiungersi ai giacimenti di carbone e petrolio a loro volta sequestrati sotto terra.
Per questo il consumo di fonti fossili deve essere bloccato, o meglio usato con molta più parsimonia e in modo più intelligente: perché nell’aria non ci sarà mai abbastanza ossigeno se noi reimmettiamo, per di più a grande velocità se paragonata ai tempi della natura, l’anidride carbonica nell’atmosfera.
Oggi più della metà delle foreste del mondo si trova in soli cinque paesi: Russia, Brasile, Canada, USA e Cina. Andrebbero assolutamente preservate, cosa che sappiamo non avviene.
Tra le varie cose che studiano all’IIT c’è anche il tentativo di usare le foglie, con l’aggiunta di foglie artificiali, per produrre elettricità innescando un procedimento che è il contrario di quanto avviene a causa dell’uso di fonti fossili per produrla. Ovvero una produzione di elettricità senza l’uso di prodotti che reimmettono carbonio nell’atmosfera.
Infine, Mazzolai pensa che riusciranno a resistere meglio ai nuovi cambiamenti anche climatici i popoli che avranno saputo tutelare, in parte, la biodiversità della natura.
Molto interessante è poi il capitolo del libro che parla della ricerca nei mari profondi, e in particolare dell’importanza delle praterie di posidonie. Sono stati ideati anche robot per l’esplorazione subacquea, tra i quali il più intrigante è un aliante sottomarino, il glider, che può spingersi fino a 1.000 metri di profondità.
All’IIT hanno creato un braccio robotico ispirato appunto al polpo e fatto di materiali siliconici.
I ricercatori studiano anche lo sviluppo di piccolissimi robot ispirati ai semi delle piante, specie quelli capaci di penetrare nel suolo o di volare: insomma, le suggestioni del libro sono davvero tante e non resta che augurare buona fortuna a questa brillante ricercatrice.
Valeria Fieramonte
(della quale potete leggere una recensione più articolata di questo volume sul sito della LUD
Olivia Ninotti
Sembrava un British invece era un Merdish. Diario intimo di una Scottish
Viterbo, Scatole Parlanti, 2022
Olivia Ninotti è neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta e direttrice sanitaria. Ma si muove a suo agio anche con la scrittura e, oltre a occuparsi di nevrosi umane, ha un’evidente conoscenza delle convivenze con e tra felini. Ne è nato un libretto pieno di humour, intelligente e molto divertente, ricco di trovate linguistiche.
La voce narrante è una gattina di tipo Scottish che gli umani chiamano Luna, ma lei non apprezza questo nome così poco fantasioso.
Dopo un passaggio in un negozio per animali si è ritrovata improvvisamente in un appartamento pieno di esseri e di stress, abitato da due BUA (bipedi umani adulti, papà e mamma) che lavorano in ambito medico e psichiatrico e da tre BUBBI (bipedi umani bambini): la prima, detta la 1, è una preadolescente, il 2 va alle elementari, il 3 ancora alla scuola materna.
Un vero zoo di comportamenti bizzarri e nevrotici, che la gatta osserva notte e giorno con acume e umorismo. C’è con loro una vecchia e ammalatissima gatta Persiana, piena di acciacchi e catarrosa, che la protagonista chiama Occhio di Sauron.
E l’inarrestabile impulso alla cura della padrona di casa (la BUA) farà poi arrivare anche un terzo gatto, sfortunato fin dalla nascita, che dovrebbe essere un British, invece è attratto dalle cose repellenti come tutti i BUBBI maschi e darà molto filo da torcere a umani e felini di casa.
Luna lo chiama “il coso”, oppure Zecca. Gelosie, sgarbi e precarie solidarietà si alternano nei rapporti tra i tre gatti.
Il libro usa spesso un linguaggio felino, ricco di frfrfrfr (fusa)…e di FFFFCSSXXFTUF (soffiate), per fortuna un apposito Glossario finale ci spiega in dettaglio come i gatti parlano per acronimi, acrostici e versi e ce ne dà la traduzione in lingua umana.
Come (quasi) tutte le gatte, Luna ha una predilezione per il dinoccolato e stressato padrone di casa, accumulatore seriale di oggetti, e ne comprende le ragioni, mentre con la rotonda BUA e coi suoi cicli ormonali ha un rapporto più conflittuale.
Anche se è lei a pulire sempre la lettiera, che non a caso i gatti chiamano TUSPAZZA.
A Luna non sfugge nulla, fin dal primo mattino, dei comici dialoghetti tra sordi dei due genitori, né delle baruffe e baraonde dei due BUBBI maschi o delle ripicche e perenni soste in bagno della 1. In casa ovviamente arriva spesso il veterinario, con le sue esose richieste di pagamento; una colf vigorosa mette provvisoriamente ordine nell’appartamento, che poco dopo ripiomba nel caos. In caso di malattie o scioperi nelle scuole si attivano i nonni.
Nel fine settimana tutta la famiglia, gatti compresi, si trasferisce spesso nella scomoda casa di montagna.
“All’inizio del mio arrivo pensavo davvero che fossero un branco di matti. Come ritenevo in generale i BUA. Non sono matti. I BUA vogliono animali in casa e si convincono che tutto andrà bene. Fanno anche i figli con la stessa fede. Ma non è vero. Ai BUA piace tanto raccontarsi le cose anche quando non ci credono fino in fondo. Forse perché hanno il dono del linguaggio articolato e parlano fuori e parlano dentro senza ascoltarsi davvero.
Ai BUA non basta essere come sono. Devono strabordare nelle loro convinzioni, speranze e ricerche di felicità. Però appunto, siccome sono mammiferi, hanno la predisposizione a prendersi cura di qualcuno che necessita delle loro attenzioni… Se fai famiglia, devi avere una casa, un lavoro e un sogno. Non necessariamente in questo ordine. E implica un continuo, faticosissimo prendersi cura. Devi metterci impegno. E i BUA lo fanno. Poi si chiedono perché sclerano. Ma perseverano” (pp. 114-115).
Il libro, arricchito da divertenti disegni, si chiude su una nota incoraggiante.
Sarebbe piaciuto molto a Laura Lepetit Maltini, amica dei gatti e delle tartarughe.
Vittoria Longoni