Eccoci con tre libri che possono contribuire alla nostra discussione di questi giorni e alle letture estive: il breve e intenso saggio di Giorgia Serughetti, dedicato al tema così attuale e universale della cura, Democratizzare la cura / Curare la democrazia Nottetempo – Semi – 2020, versione Kindle gratuita; lo stimolante saggio pluridisciplinare, con una seconda parte di fantascienza narrativa, di Donna Haraway, [ps2id url=’#a29′]↓[/ps2id] Chthulucene – sopravvivere su un pianeta infetto editrice NERO, trad. it. settembre 2019; le mille rifrazioni della scrittura biografica, a proposito della grande Virginia Woolf, nel romanzo [ps2id url=’#a30′]↓[/ps2id] Virginia, di Emmanuelle Favier, 2020, Guanda, Milano, traduzione Alba Bariffi. Continuate a mandarci i vostri contributi e commenti all’indirizzo librarsi@casadonnemilano.it, li pubblicheremo periodicamente. Buone letture e buona estate!

Giorgia Serughetti
Democratizzare la cura / Curare la democrazia
Nottetempo – Semi – 2020 versione Kindle gratuita.

Copertina 1 (Serughetti)È quasi un indice, tanto è denso di contenuti, ma scorrevole e chiarissimo. Questo breve saggio (30 pagine) riprende questioni, intorno alla cura, con cui credo ognuna di noi ha dovuto confrontarsi in vari modi e in vari contesti. Ho ritrovato, messi in luce, molti degli aspetti che per me è stato determinante affrontare negli ultimi anni – negli incontri di autocoscienza alla Casa delle Donne di Milano – riguardo la cura e le sue pratiche contraddittorie. Il concetto di cura, da un primo immediato significato di assistenza-accudimento-salute, si è allargato ad uno assai piú ampio di necessità relazionale e responsabilità verso il vivente ed il pianeta; un significato “esteso e rinnovato” della cura, come dice l’autrice, ed una pratica da mettere in atto.
Lo slogan “I can’t breathe” che ci introduce nel discorso, ci mette di fronte alla necessità di rispondere al bisogno di tutti di “respirare”, di “vivere” una vita che sia dignitosa. La pandemia ci ha fatto ritrovare il peso dei corpi, e con essi il peso delle attività necessarie, essenziali e da sempre marginalizzate e deprezzate ( sostentamento, riproduzione educazione ). Ha messo al centro dell’attenzione chi se ne cura e sono venute a galla la divisione sessuale del lavoro, le diseguaglianze di genere, di classe, di nazionalità e status migratorio. Ha rivelato la dipendenza del lavoro produttivo da quello riproduttivo.
Questa prospettiva, proviene da decenni di teoria politica e pratica femminista, e mette in crisi il modello attuale di convivenza sociale. Ma la cura è davvero definita da relazioni di diseguaglianza ineliminabili e irrimediabili tra chi dà e chi riceve?
E la cura lasciata al mercato non ha impoverito dal punto di vista relazionale oltre che economico le persone, aumentato l’incertezza dell’assistenza e visto diminuire i diritti di chi lavora in questo campo? E inoltre, se intendiamo la cura nel senso più vasto di manutenzione del vivente, quali elementi essenziali e che forme può avere?
Necessaria è una democrazia della cura che abbraccia l’intera vita delle persone e i rapporti tra le generazioni, che fa di ognuno, in momenti diversi della propria vita, un possibile erogatore e un possibile destinatario. Curare la democrazia, è dare valore ad ogni essere, riconoscendo una ulteriore forma di cura: il “care with” cioè la pratica che vede tutte e tutti avere voce nelle decisioni. Davanti ad una prospettiva di recessione globale che impoverirà ulteriormente gran parte della popolazione di un pianeta ormai allo stremo dal punto di vista ambientale si deve tenere aperta questa possibilità di cambiamento che abbiamo intravisto. Un appello, lanciato da tremila intellettuali di nazioni diverse chiede la partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori alle decisioni economiche e sostiene la “de-mercificazione del lavoro”. Per un pianeta della cura.

Rossana Molinari


[ps2id wrap id=’a29′]Donna Haraway
Chthulucene – sopravvivere su un pianeta infetto
editrice NERO, trad. it. settembre 2019

Copertina 2 (Haraway)Con uno stile istrionico e brillante, fatto di neologismi e insoliti nessi tra le parole, Donna Haraway prosegue le sue proposte femministe che intrecciano saperi diversi, provocano, stupiscono, aprono orizzonti nuovi e a volte inquietano un po’ (almeno me). Abbiamo già recensito qui il suo libro Le promesse dei mostri, conosciamo dagli anni ‘90 il suo Manifesto cyborg- Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, basato sul postmoderno, sul cyborg e sul genere con un’apertura potenzialmente positiva sulle possibilità di intrecciare corpi e macchine, oltrepassando i dualismi e i confini tra i sessi. E’ stato tradotto da poco in Italiano anche il suo Chthulucene (il titolo originale del 2016 aggiunge: Staying in the trouble) che ha messo alla prova le traduttrici coi suoi acuti neologismi “responso-abilità”, “tempospettiva”, “con-pensare”, “con-fare”, “ongoingness (cioè più o meno “esistere=progredire”)”, “humusità”(dal latino humus=terra).Lo strano titolo del libro, che intende identificare una nuova era geologica dopo il discutibile Antropocene o meglio Capitalocene, unisce la radice greca (Chthòn) che indica la Terra col nome scientifico di un ragno californiano dalle lunghe zampe, Pimoa Chtulu, e con la tentacolarità. Haraway si misura con tutti i temi delle catastrofi ambientali e degli squilibri planetari negli e tra gli ecosistemi, e avanza prospettive nuove sui rapporti tra le diverse specie, all’insegna della “simpoiesi” tra tutti i viventi. In effetti, mille fili (quelli che ad Haraway piace tanto intrecciare) legano tra loro i diversi esseri del pianeta, dai funghi agli insetti agli umani, che dovrebbero collaborare alla reciproca sopravvivenza dopo i disastri provocati dalla cultura patriarcale. In molti ora rischiamo l’estinzione, abbiamo tutto da guadagnare dalla coesistenza e dall’intreccio virtuoso delle diverse abilità. Come il manifesto Cyborg si chiudeva con le parole lapidarie “ preferisco essere cyborg che dea”, il motto di fondo di questo libro è “generare relazioni ( o parentele, kin) e non bambini (kids)”. Insomma, più intrecci relazionali che moltiplicazione a dismisura degli umani, e attiva collaborazione tra i viventi. Nella “fabula speculativa” che occupa la seconda metà del libro, leggiamo l’invenzione narrativa di cinque nuovi viventi, detti “Camille”. Esseri post-umani che si alternano in cinque generazioni, tra il 2025 e il 2425, e contengono innesti del patrimonio genetico delle farfalle monarca, ereditandone le abilità. Naturalmente le Camille, dotate di organi tentacolari, sono amiche delle militanti attive nella difesa dei territori e delle culture, “bevono le lacrime di chi piange i morti assassinati, le persone stuprate e gli scomparsi di ogni dove” e alla fine il pianeta, rinnovato e riequilibrato, compare popolato da (soli) tre miliardi di esseri umani, compresi anche i “simbionti “ e i “sinanimici” che nascono dagli innesti biologici. Si potrebbe discutere a lungo sui fondamenti teorici di questo libro, in ogni caso ci si immerge nelle intuizioni e nelle metafore folgoranti del testo, che infine risulta meno inquietante perché si colloca, nella seconda metà, nell’ambito dichiarato della fantascienza. Ma – direbbe Haraway – non dimentichiamo i nessi tra le varie possibilità dell’acronimo FS: fantascienza, femminismo speculativo, fabula speculativa, fatto scientifico. Senza dimenticare le stringhe dei fili.

Vittoria Longoni


[ps2id wrap id=’a30′]Emanuelle Favier
Virginia, romanzo
traduzione Alba Bariffi, Guanda 2020

Copertina 3 (Favier)Il paradosso del libro è che, sebbene si intitoli Virginia e ruoti intorno all’infanzia e all’adolescenza di Virginia Woolf, non è una biografia. E’ l’autrice stessa, Emmanuelle Favier, a metterci in guardia definendolo fin dalla copertina “romanzo”. Virginia (punto d’arrivo di metamorfosi identitarie e anche nominali, già miss Jan, Ginia nel lessico familiare) vista attraverso un “cannocchiale”, lontana e viva insieme, è l’occasione per la Favier di dispiegare la sua immaginazione letteraria. Virginia è un prisma che riflette le forme dell’epoca, di chi vive intorno a lei , delle sue metamorfosi e della scrittrice che la evoca. Il risultato è un libro originale e strano dove il seme di una vita si gonfia e fiorisce nel linguaggio poetico e aereo che lo fa crescere come un quadro impressionista in cui la realtà si trasfigura e si sfaccetta in una vibratile percezione visiva. E così il romanzo diventa anche e soprattutto una riflessione sul processo personale di Virginia e universale in cui si arriva a definirsi scrittore. Per farlo la Woolf deve attraversare le sue genealogie funeste, fare i conti con i monumenti funebri interiori come quello alla Madre, decidere come dire il silenzio e ciò che non viene detto, trovare un modo per intessere alle parole il tempo e lo spazio. Deve trasformare il familiare, vagamente minaccioso, in ignoto, cercare come una rabdomante la sorgente vitale delle parole. Intorno al fascio di vibrazioni in cui la Favier trasforma Virginia, si muove una famiglia orbata del suo perno e disfunzionale in cui si scontrano una somma di solitudini alcune capaci di diventare soggettività, altre invece solo di decomporsi. Una famiglia che ha più di un punto cieco nel buio concreto delle stanze, dove, come dice la Favier, la schiena del “mostro” più volte si mostra a fior d’acqua. Il mondo vittoriano è ormai alla fine, ma ancora in grado di proiettare le sue ombre malate insieme però al parto di nuovi talenti maschili e femminili, nella faticosa gestazione del Novecento. Favier dà conto di morti e nascite illustri, avvenimenti che vanno a comporre il tessuto storico che si dispiega intorno alla Woolf.
Ci consegna un libro insolito e divergente eppure molto informato che ci offre rifrazioni multiple di Virginia, invogliandoci a conoscere a fondo la sua opera.

Marilena Salvarezza