Dalla rivista americana “New Statesman”, 22 settembre 2020.
Traduzione di Paola Redaelli – 

Trent’anni fa la filosofa Judith Butler, che ora ha 64 anni, pubblicò un libro che rivoluzionò i modi in cui abitualmente si concepiva il genere. “Questione di genere”, l’opera per cui probabilmente è più conosciuta, ha introdotto l’idea del genere come performatività. Butler si chiedeva come definiamo “la categoria delle donne” e, di conseguenza, per chi il femminismo intenda combattere. Oggi il suo libro è diventato il testo basilare di ogni bibliografia di studi di genere, e le argomentazioni in esso sviluppate hanno ampiamente travalicato la cultura accademica per permeare quella di massa.
Nei tre decenni trascorsi dalla sua pubblicazione, il mondo è cambiato fino a divenire irriconoscibile. Nel 2014 “Time” scrisse di un “punto di non ritorno transgender”. La stessa Butler è andata oltre il suo primo lavoro, scrivendo ampiamente di cultura e politica, ma le controversie sull’essenzialismo biologico rimangono, come risulta evidente dalle tensioni sui diritti trans nel movimento femminista.
Come vede Butler (professoressa di Letteratura comparata a Berkeley) questo dibattito oggi? C’è, a suo avviso, un modo per superare l’impasse? A questo proposito c’è stato recentemente un dibattito via email tra Butler e il “New Statesman”, di cui pubblichiamo qui la versione rivista redazionalmente.

Alona Ferber: In “Questione di genere”, lei ha scritto: “Nel femminismo contemporaneo i dibattiti sul significato del genere continuano spesso a provocare un senso di disturbo come se l’indeterminatezza del genere potesse infine culminare nel fallimento del femminismo”. Le idee che lei ha esplorato in quel libro 30 anni fa quanto possono aiutare a spiegare come il dibattito sui diritti trans si sia spostato nella cultura e nella politica dominanti?
Judith_ButlerJudith Butler: Innanzitutto voglio discutere se le femministe radicali trans-escludenti (TERF) siano effettivamente la stessa cosa delle femministe tradizionali. Se lei ha ragione a identificare le une con le altre, allora la posizione femminista che si oppone alla transfobia è una posizione marginale. Io penso che ciò non sia vero. Confido che la maggioranza delle femministe siano a favore dei diritti trans e contrarie a ogni forma di transfobia. Pertanto trovo preoccupante che all’improvviso la posizione delle femministe radicali trans-escludenti sia considerata come comunemente accettata o persino quella prevalente. Penso che quello delle femministe radicali trans-escludenti sia un movimento marginale che aspira a parlare in nome di tutte le altre femministe e che tocca a noi impedire che ciò accada.
AF: Un esempio del discorso pubblico dominante a questo proposito nel Regno Unito è il dibattito sulla possibilità che le persone si autoidentifichino in termini di genere. In una lettera aperta pubblicata in giugno JK Rowlings ha espresso la preoccupazione che ciò significherebbe “spalancare le porte dei gabinetti e degli spogliatoi a qualsiasi uomo che pensa di essere una donna o si sente tale” e potrebbe esporre le donne al rischio di violenza.
JB: Se esaminiamo attentamente l’esempio che lei definisce dominante ci rendiamo conto di essere nel regno della fantasia, in cui è appunto al lavoro la fantasia, e ciò ci dice molto di più della femminista che ha questa paura piuttosto che di una qualsivoglia situazione esistente nella vita delle persone trans. La femminista che vede le cose in questo modo presume che sia il pene a definire la persona e che chiunque abbia un pene si potrebbe identificare come donna al solo scopo di entrare in quegli spogliatoi e minacciare le donne che sono lì. Ciò presuppone che la minaccia sia il pene oppure che qualsiasi persona che abbia un pene e che si identifichi come donna faccia propria una forma di travestimento vile, ingannevole e dannosa. Si tratta di una fantasia efficace derivante da paure molto potenti, ma che non descrive una realtà sociale. Le donne trans subiscono spesso varie forme di discriminazione nei gabinetti maschili e le modalità che scelgono per autoidentificarsi descrivono una realtà vissuta, una realtà che non può essere né colta né regolata dalle fantasie che si fanno su di loro. Il fatto che in una discussione pubblica fantasie del genere vengano prese come argomentazioni è preoccupante.

AF: Vorrei un chiarimento sul termine TERF, che alcuni considerano un insulto.
JB: Non sapevo che il termine TERF fosse un insulto. La mia domanda è: come dovrebbero essere chiamate le femministe che vogliono escludere le donne trans dagli spazi delle donne? Se sono a favore dell’esclusione, perché non chiamarle escludenti? Se loro ritengono di appartenere a quel gruppo del femminismo radicale che si oppone alla riattribuzione di genere perché non chiamarle femministe radicali? Il mio unico rammarico è che il movimento per la libertà sessuale radicale di una volta ora purtroppo si è trasformato in una campagna per patologizzare le persone trans o non conformi dal punto di vista del genere. La mia sensazione è che dobbiamo riorganizzare la lotta femminista per l’uguaglianza di genere e la libertà di genere con l’obiettivo di affermare la complessità delle vite di genere così come vengono vissute oggi.
AF: Pare che le progressiste convengano sul fatto che le femministe schierate nel dibattito con JK Rowling sono dalla parte sbagliata della storia. È giusta questa affermazione o c’è qualcosa di buono nelle loro argomentazioni di queste ultime?
JB: Chiariamo che la discussione qui non è tra femministe e attiviste trans. Ci sono femministe trans-affermative e molte persone trans che sono anche femministe impegnate. Dunque, un problema evidente è costituito da questa impostazione, secondo la quale il dibattito sarebbe tra femministe e persone trans. Non è così. Una ragione per contrastare quest’ottica è che l’attivismo trans è connesso all’attivismo queer e all’eredità femminista che continua ad essere viva a tutt’oggi. Il femminismo ha sempre sostenuto che i significati sociali dell’essere un uomo o una donna non sono definiti una volta per tutte. Facciamo ricerche storiche su cosa significasse essere una donna in un certo tempo e in un certo luogo, e tracciamo la trasformazione di queste categorie nel tempo.
Ci riferiamo al genere in quanto categoria storica, e ciò vuol dire che non conosciamo ancora tutte le modalità in cui questa categoria può arrivare a manifestarsi, e siamo aperti a nuove interpretazioni dei suoi significati sociali. Sarebbe disastroso per il femminismo ritornare a un’interpretazione rigorosamente biologica del genere, o a ridurre il comportamento sociale a una parte del corpo, o a o imporre fantasie spaventose, le angosce di chi ha queste fantasie, alle donne trans… Sarebbe necessario che la percezione del genere delle donne trans, una percezione persistente e a tutti gli effetti realistica, venisse riconosciuta socialmente e pubblicamente come una questione la cui soluzione, relativamente semplice, consiste nel riconoscere una nuova dignità umana. La posizione delle femministe radicali trans-escludenti è un attacco alla dignità delle persone trans.
AF: In “Questione di genere” lei si chiedeva se, cercando di affermare una particolare idea delle donne, le femministe non partecipassero delle stesse dinamiche di oppressione ed eteronormatività che stavano cercando di cambiare. Alla luce degli aspri contrasti che si verificano ora all’interno del femminismo, vale la stessa cosa?
JB: Per quel che mi ricordo, in “Questione di genere” (scritto più di 30 anni fa), il punto era abbastanza diverso. Primo, una persona non deve essere una donna per essere femminista, e non dobbiamo confondere le categorie. Gli uomini che sono femministi, i non binari e i trans che sono femministi sono parte del movimento se condividono le idee fondamentali sulla libertà e l’uguaglianza che sono parte di ogni lotta politica femminista. Le leggi e le politiche sociali che riguardano le donne decidono tacitamente anche su chi vada considerato una donna e molto spesso presuppongono che cosa sia una donna. Lo abbiamo visto nel campo dei diritti riproduttivi. Dunque, la domanda che facevo allora è: abbiamo bisogno di avere un’idea definita delle donne o di qualsiasi genere per portare avanti gli obiettivi femministi? Metto la questione in questi termini… affinché ci ricordiamo che compito delle femministe è di riflettere sui diversi e mutevoli significati del genere e di sostenere gli ideali della libertà di genere. Non voglio dire che tutti noi dobbiamo scegliere il nostro genere. Piuttosto, dobbiamo rivendicare politicamente di poter vivere liberamente e senza paura di discriminazione e violenza il genere che siamo. Molte persone che alla nascita sono state registrate come donne non si sono mai sentite a proprio agio in questa categoria, e queste persone (me inclusa) ci dicono qualcosa di importante a proposito delle costrizioni che le norme tradizionali relative al genere impongono a coloro che non rientrano nei loro dettami. Le femministe sanno che le donne con delle ambizioni sono giudicate “mostruose”, o che le donne non eterosessuali sono considerate patologiche. Noi combattiamo questi travisamenti in quanto sono falsi e perché ci dicono più della misoginia di chi concepisce queste parodie insultanti di quanto ci raccontino della complessa diversificazione sociale delle donne. Le donne non dovrebbero aver nulla a che fare con forme di caricatura fobica da sempre impiegate per umiliarle. E con “donne” intendo tutte quelle che si identificano come tali.
AF: L’acrimonia con cui si affronta la questione è funzione delle guerre culturali che si combattono online?
JB: Penso che stiamo vivendo in tempi anti-intellettuali come risulta evidente in tutto lo spettro politico. La velocità dei social favorisce forme di critica che non aiutano proprio un dibattito ponderato. Dobbiamo privilegiare forme più “lunghe”.
AF: Le minacce di violenza e abuso sembrerebbero portare questi “tempi anti-intellettuali” all’estremo. Che cosa ha da dire sul linguaggio violento e offensivo usato online contro persone come JK Rowling?
JB: Sono contro ogni tipo di violenza. Confesso di essere perplessa per il fatto che lei sottolinea la violenza contro JK Rowling, ma non parla della violenza, online e di persona, rivolta contro le persone trans e coloro che stanno dalla loro parte. Sono in disaccordo con il pensiero di JK Rowling sulle persone trans, ma non penso che lei debba essere oggetto di molestie e minacce. Non dimentichiamo, però, anche le minacce contro le persone trans in posti come il Brasile, le molestie alle persone trans nelle strade e nei luoghi di lavoro in paesi come la Polonia o la Romania – o anche proprio qui, negli Stati Uniti. Dunque, se condanniamo la violenza e le minacce, come sono certa che stiamo facendo, dovremmo anche assicurarci di avere un panorama sufficientemente ampio di dove esse si stanno verificando, di chi ne è maggiormente colpito e chiederci se ciò sia tollerato da coloro che dovrebbero opporvisi. Non si dovrebbe dire che le minacce contro alcuni sono tollerabili ma contro altri no.
AF: Lei non era tra i firmatari della lettera aperta sulla “cancel culture” (ndt: cultura di cancellazione, cioè contro la libertà di parola, firmata da W. Allen, N. Chomsky, M. Atwood, ecc.) pubblicata da “Harper’s” nell’estate 2020, ma le riflessioni in essa contenute le hanno detto qualcosa?
JB: Ho pensieri contradditori su quella lettera. Da un lato, io sono un’educatrice e una scrittrice e credo nelle discussioni. pacate e ponderate. Imparo dal fatto di essere messa in discussione e contraddetta, e accetto di aver commesso degli errori significativi nella mia vita pubblica. Perciò, se qualcuno dicesse che io non dovrei essere letta e ascoltata a causa di questi errori, bene, dentro di me non sarei d’accordo, dal momento che penso che qualsiasi errore una persona abbia fatto non possa, o debba, riassumere quella persona. Viviamo nel tempo; sbagliamo, qualche volta in modo grave; e, se siamo fortunati, cambiamo proprio per le interazioni che ci fanno vedere le cose in modo diverso.
D’altro canto, alcuni dei firmatari di quella lettera prendevano di mira il movimento Black Lives Matter come se opporsi con forza e pubblicamente al razzismo fosse di per sé un comportamento incivile. Alcuni di loro hanno avversato i diritti riconosciuti dalle leggi internazionali alla Palestina. Altri sembra che siano responsabili di molestie sessuali. E altri ancora non vogliono essere criticati per il loro razzismo. La democrazia è una bella sfida, che però non viene praticata sempre con toni pacati. Pertanto non sono d’accordo che le pressanti rivendicazioni di giustizia degli oppressi vengano neutralizzate. Quando uno non è stato ascoltato per decenni, il suo grido di giustizia non può non essere forte.
AF: Quest’anno lei ha pubblicato “La forza della non-violenza”. L’idea di “uguaglianza radicale” che lei discute nel libro ha una qualche rilevanza per il movimento femminista?
JB: Nel mio ultimo libro voglio suggerire di ripensare l’uguaglianza in termini di interdipendenza. Tendiamo a dire che una persona dovrebbe essere trattata allo stesso modo di un’altra, e valutiamo se c’è o non c’è uguaglianza paragonando dei casi individuali. Ma, se l’individuo – e l’individualismo – fosse parte del problema? Percepire noi stessi in quanto viventi in un mondo in cui dipendiamo in modo sostanziale dagli altri, dalle istituzioni, dalla Terra, e vedere che questa nostra vita dipende da un’organizzazione sostenibile per varie forme di vita, farebbe una bella differenza Se nessuno sfugge a questa interdipendenza, allora siamo uguali in un senso diverso. Siamo cioè ugualmente dipendenti, ugualmente sociali ed ecologici, e ciò vuol dire che dobbiamo smetterla di vedere noi stessi soltanto come individui isolati. Se le femministe radicali trans-escludenti pensassero se stesse come partecipi dello stesso mondo delle persone trans, in una lotta comune per l’uguaglianza, la liberazione dalla violenza, il riconoscimento sociale, non ci sarebbero più femministe radicali trans-escludenti. Ma il femminismo certamente sopravviverebbe in quanto pratica unificante e visione della solidarietà.
AF: Lei ha parlato della reazione violenta contro “l’ideologia del genere”, sulla quale ha scritto un articolo per il “New Statesman” nel 2019. Vede un qualche nesso tra ciò e il dibattito attuale sui diritti trans?
JB: È davvero penoso vedere che la convinzione di Trump che il genere debba essere definito dal sesso biologico e l’impegno degli evangelici e dei cattolici di destra per cancellare il “genere” dal settore dell’istruzione e dalle politiche pubbliche convergono con il ritorno all’essenzialismo biologico delle femministe radicali trans-escludenti. È un periodo cupo, questo, in cui vediamo alcune femministe sostenere l’ideologia anti-genere delle forze più reazionarie della nostra società.
AF: Pensa che ci sia qualcosa che possa far uscire il femminismo da questo vicolo cieco riguardo ai diritti trans? Che cosa potrebbe condurre a un dibattito più costruttivo?
JB: Penso che un dibattito, se fosse possibile, dovrebbe riesaminare le modalità in cui la determinazione medica delle funzioni sessuali agisce in relazione alla realtà vissuta e storica del genere.