In questi giorni di isolamento forzato leggo molte riflessioni di donne che hanno praticato quel “partire da sé” che sta all’origine e alla base del femminismo. Mi rispecchio, mi confronto e penso.
Il partire da sé non significava concentrarsi sul proprio vissuto facendolo quasi diventare l’unica realtà da sondare e di cui tener conto. Il partire da sé voleva dire partire dalla propria esperienza per sondare e interpretare il mondo, partire dalla propria storia per interrogare “la storia”. Viversi come “soggetto imprevisto” per scoprire altri soggetti non previsti..
Il mio femminismo si è sempre intrecciato con la passione di cambiare il mondo. Pertanto, mi chiedo, in questi giorni: Come mai vogliamo/vorremmo tutte/i che gli “scienziati” ci dicessero cosa fare, con certezza? Dove è finita la “non neutralità della scienza” e quali strane strade ci hanno condotto al bisogno di delega e di affidamento? Perché viene criticata una femminista (per giunta “esperta”) che ricorda come il contagio, di cui tutte e tutti abbiamo paura, si deve pensare all’interno di un sistema di sanità pubblica smantellato e svenduto al libero mercato nella accondiscendenza della gran maggioranza delle forze politiche?
Perché si scrive che “non è il momento” di denunciare che questa pandemia è strettamente connessa alla depredazione della terra e alla distruzione dell’ambiente, perché “questo è il momento del lutto e della pietà”? Perché mi trovo impreparata di fronte ad una situazione – in cui non sono più “padrona della mia vita”- che molte altre e altri hanno vissuto e subito e vivono e subiscono in varie parti del mondo?
Perché la consapevolezza della comune vulnerabilità umana, di cui ha parlato tanto sapientemente Judith Butler, non ha avuto la capacità di toccare e smuovere milioni di persone come ha fatto e continua a fare la paura?: La paura dell’invasione dei profughi e dei migranti, dei poveri e dei diversi e ora del contagio?
Ognuna di noi si è sentita, in un qualche momento della propria vita, una “diversa”, e proprio rivendicando la nostra diversità, abbiamo preteso che venisse riconosciuta politicamente la Casa delle Donne.
Quale parola abbiamo da consegnare alla città perché la nostra diversità non risulti un privilegio ma un’occasione per ripensare, radicalmente, i valori su cui costruire una convivenza, cioè una politica, più umana fatta di condivisione, ascolto, senso del limite e soprattutto di stupore di fronte alla ricchezza della vita nelle sue varie manifestazioni?