di Grazia Longoni
È giusto l’appello della Casa delle Donne perché ciascuna racconti e condivida quello che vive in questa emergenza. Ma non mi viene in mente niente. Perché mi sembra di dover esprimere qualcosa di significativo, di interessante. Di femminista? Invece i miei pensieri faticano a decollare in questo tempo strano, che è mezzo vuoto e mezzo pieno. E ruotano intorno alla fisicità limitata dell’ambiente in cui mi trovo: la casa, le scale, il cortile, il piccolo supermercato.
Andrà tutto bene. Questa scritta, in grandi caratteri e sopra un coloratissimo arcobaleno, è appesa sul cancello che separa le scale di casa dal cortile interno. L’ha fatta un vicino, con la sua bambina di quattro anni. La vedo molte volte al giorno, sia quando scendo a buttare la pattumiera (un’evasione, di questi tempi) sia quando vado su e giù dalle scale per tenermi un po’ in forma. Non so che cosa significa. Che non ci ammaleremo? Certo, lo spero. Che tutto tornerà come prima? Non credo, e non so se lo desidero. Che saremo migliori? Non ne sono affatto sicura, a meno di impegnarci molto.
Distanze. Con mio marito oggi abbiamo notato che prima di abbracciarci abbiamo un attimo di esitazione. Abbiamo così rapidamente interiorizzato l’abitudine a tenere le distanze? Quanto tempo durerà questo riflesso automatico? Avrà conseguenze sul nostro modo di relazionarci con gli altri? Torneremo a sorridere loro, quando avrà un senso, perché con la mascherina non ce l’ha? Stamattina, fuori dal piccolo supermarket dove ho fatto la spesa, il mendicante cui ho dato due euro si è sentito in dovere di aiutarmi a mettere le borse sulla bicicletta, e io ho avuto paura della sua vicinanza, anche se aveva i guanti e la mascherina. A proposito, dove sono finiti tutti quelli che chiedevano l’elemosina quasi a ogni angolo di strada?
Supermarket. Prima di andare al supermarket mi ero diretta a un vicino negozio di alimentari, mi piaceva perché era gestito con grande cura e scrupolo da una famiglia di sudamericani. Chiuso. Un cartello dice che sono stati costretti perché molti clienti non rispettavano le regole e loro “non sono immuni da questa malattia”. Peccato, mi sembrava una bella idea fare acquisti lì invece che all’Esselunga. Chissà se me ne ricorderò dopo, quando all’Esselunga ci potrò entrare ogni giorno e non dovrò pensare a quante volte cambiano l’aria né controllare che tutti abbiano i guanti…
Lavoro. Dal balcone della cucina ho ampia vista sul tetto, una copertura quasi piatta, della palazzina di fronte, che era in via di ristrutturazione. Da tre settimane tutto è fermo. Ci sono una carriola capovolta, una vanga buttata lì, sacchi di cemento, pezzi di plastica. Le nuove grondaie di rame scintillano ammucchiate e abbandonate. Sembra che tutto sia stato interrotto all’improvviso, senza il tempo di riordinare. Mi fa pensare all’arresto di tante attività produttive, quelle “non smart working”, a tante persone senza salario. E a quelle che “dopo” il lavoro non l’avranno più.
Risvegli. In questi giorni dormo più del solito e al mattino ci metto un po’ a decidere di uscire dal letto. Come succede di solito alla domenica, quando il giorno è libero e vuoto davanti a me. Ma non è domenica. Mi manca il progetto della giornata, il susseguirsi delle cose da fare, banali o necessarie o interessanti.
Progetti. Non riesco a farne per il “dopo”. Leggo libri, ma non quanto potrei. Guardo giornali e siti web, ascolto la radio, ma raramente ne traggo vere riflessioni. Ho fatto un paio di acquerelli, non riesco a dedicarmi. Mi consola un po’ il fatto che molte persone con cui parlo confessano una quasi totale mancanza di “produttività intellettuale”. Persino scrittori, scenografi, registi intervistati alla radio dichiarano la stessa cosa, così come alcune “esperte” cui ho chiesto di scrivere delle riflessioni per il sito della Casa delle Donne. “Non ho testa in questi giorni” mi dicono. Non è tempo di creatività, a quanto pare. “Vorrei solo occuparmi della mia famiglia, stare in cucina e fare delle torte”, mi dice un’amica giornalista, solitamente impegnatissima. Anch’io a volte ho questo pensiero.
Uscirne, insieme. Un’amica, bloccata nella casa al mare dall’ordinanza del 7 marzo, mi dice che si sente “una traditrice”. Altre due, che stanno nelle loro case di montagna, cercano quasi di giustificarsi. Capisco questi stati d’animo, non riuscirei a vivere questo momento in una casa di vacanza, anche se sarebbe un confino certamente più gradevole. Non c’è un perché razionale. Quello che provo è un sentimento di solidarietà e vicinanza con coloro che so vivere la stessa esperienza. Il contagio può renderci comunità? Mi piacerebbe che fosse così. Comunità vuol dire tante cose: non solo stare e sentirsi vicini, preoccuparsi per gli altri, ma condividere i beni comuni, e prendercene cura. Forse è proprio da questo sentimento che potremo ripartire. Ma bisogna coltivarlo.
Pensiero ultimo. Una poesia di Philip Larkin, che parla di un porcospino ucciso per sbaglio in un prato dal tagliaerba, dice: “Il giorno dopo io mi sono svegliato, lui no. Il primo giorno dopo una morte, la nuova assenza è sempre la stessa. Dovremmo stare attenti l’uno all’altro, essere buoni, finché c’è ancora tempo”.