di Grazia Longoni

“Hai bisogno di vedere un occhio nero per accorgerti della violenza sulle donne?”. La scritta, posizionata sul viso di una giovane donna, appare su circa 200 manifesti nelle stazioni della metropolitana di Milano. La campagna è della Cadmi, Casa delle donne maltrattate, ed è stata presentata il 22 novembre 2021 alla Cascina Cuccagna nel convegno “Il potere delle parole, il ruolo dei media nel contrasto alla violenza contro le donne”. Tema di fondo: perché ancora oggi le vittime di violenza maschile vengono presentate come “corresponsabili”? Perché è sempre la donna la causa di gelosie, raptus, aggressività? O di lei si insinua che abbia “comportamenti esasperanti”?

Un’attrice, Letizia Bravi, legge una raffica di titoli di giornali e di servizi tv. Quasi tutti riguardano femminicidi: uno ogni tre giorni dicono le statistiche, ma la settimana scorsa sono state ammazzate cinque donne e due bambini. Il femminicidio è oggetto di un’attenzione quasi morbosa, che fa audience, creando linguaggi e cultura. Ecco dunque i rischi e le trappole.

Il diritto di cronaca, che dovrebbe servire a inquadrare un contesto, scivola spesso in un’ambigua ricerca del “movente” che finisce per giustificare l’assassino. Ancora oggi si scrive di “raptus”, che non esiste in termini scientifici. E di “motivi passionali”: era geloso, lei lo tradiva, lui non sopportava che lei se ne andasse da casa, poi si è pentito… Il punto di vista è sempre quello di lui. Quanto a lei, se ne sottolinea spesso la “normalità”: ragazza solare, studentessa modello, madre affettuosa, curava i fiori sul balconcino… Allora sì che diventa davvero la vittima innocente. Ma se fosse stata meno “normale”?

“È facile dichiararsi contro la violenza sulle donne, tutti lo fanno” ha detto Manuela Ulivi, presidente di Cadmi. “Ma molti giornalisti e conduttori, e anche qualche donna, della violenza raccontano solo l’atto finale, non il contesto in cui è maturata. A quel punto scrivono e dicono cose sbagliate perché non ne sanno nulla. Siamo qui per cambiare questo racconto. Contro la violenza vogliamo un no competente”.

Ci sono anche gli strumenti da far valere nelle redazioni e negli studi televisivi, come il “decalogo” contenuto nel Manifesto di Venezia del 2017, voluto dalle giornaliste di Giulia e sottoscritto dai principali sindacati di categoria. Si parla di “formazione deontologica obbligatoria sul linguaggio”, di “comportamento professionale consapevole” per evitare stereotipi, di “par condicio di genere” nei talk show e nei programmi di informazione, di evitare la distinzione tra violenze di serie A e di serie B, illuminando anche le violenze su prostitute e trans. E ancora: mettere in risalto le storie di donne che hanno avuto il coraggio di sottrarsi alla violenza, dare la parola a chi opera a loro sostegno. Evitare ogni sfruttamento “commerciale” della violenza: più copie, più clic, maggiori ascolti. Infine si ragiona in dettaglio sui termini da non usare: “amore” “raptus” “follia” “gelosia” “passione” accostati ai crimini; “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” per suggerire attenuanti e giustificazioni.

È vero che si tratta di indicazioni, non di obblighi. Ma già al NY Times esiste la “gender editor”. E il richiamo è forte per tutti e tutte coloro che lavorano nell’informazione: si tratta di riflettere su come si usa il potere nel raccontare i fatti. “Mettiamoci in discussione” ha concluso Ulivi. “Sul tema della violenza contro le donne l’arretratezza è insopportabile”.