Vi consigliamo due libri di rara intensità che in forme diverse ci riportano una riflessione più che mai attuale su quali siano le radici dell’umano. Nell’uno, Boschi cantate per me, Anna Paola Moretti ha raccolto con appassionata cura parte delle poesie scritte da donne prigioniere del campo di concentramento femminile di Ravensbruk. Poesie scritte nella clandestinità, conservate e diffuse nei modi più creativi. La stessa ingegnosità mostrata nel rendere più sopportabile la quotidianità dei bambini, costruendo giocattoli con materiali abbandonati, raccontando fiabe, cantando, organizzando feste. Sembra incredibile che donne ridotte nella condizione più estrema riescano a far fiorire parole di bellezza e speranza, esprimano gesti di coraggio, solidarietà e amicizia, unici potenti antidoti all’annichilimento imperante che le vuole semplici cose.

L’altro libro, Umanità violata, La Palestina e l’inferno della ragione, è un saggio della filosofa Roberta De Monticelli che mescola esperienza personale, documentazione e riflessione sul dramma della distruzione di Gaza, nel 2024, da parte dell’esercito e del governo israeliano dopo i fatti cruenti del sette ottobre 2023. La risposta senza più proporzioni all’attacco brutale di Hamas ha svelato una realtà da sempre sottesa: la costruzione dell’odio etnico per i palestinesi, la inarrestabile, illegale crescita dell’occupazione israeliana, la trasformazione del paese in uno stato teocratico. Per Roberta De Monticelli la causa principale è la deriva della funzione mediatrice della ragione e del  diritto tra violenza originaria e senso di giustizia.

Quello che accade in Palestina è una metafora di ciò che accade nel mondo intero, distrutti i vincoli sociali e il ruolo di mediazione dei conflitti che le istituzioni internazionali rappresentavano. E’ ormai la forza bruta a dominare, senza più la foglia di fico della civilizzazione. Contro le tenebre, entrambi i libri propongono “il rimanere umani”, il fondare un nuovo patto che veda nell’altro il proprio limite. Un patto che abbia al centro le interazioni positive tra tutti gli esseri viventi, per un nuovo habitat materiale e spirituale. E di sicuro in questo storico compito le donne hanno un ruolo centrale.

Anna Paola Moretti (a cura di)
Boschi cantate per me
enciclopediadelledonne.it

Che le poesie potessero essere anche una forma di resistenza estrema, per me è stata una scoperta: questa antologia poetica dal lager femminile di Ravensbruck, un centinaio di poesie provenienti dal più grande campo di concentramento femminile d’Europa, non è solo una descrizione di sentimenti vissuti, ma arte vera, e di alto livello.

Quello che stupisce è il modo come queste poesie sono arrivate fino a noi: custodite e memoria e poi ritrascritte, cucite negli orli dei vestiti, nascoste, con mille pericoli, in barattoli di vetro sepolti,  per ognuna di esse ci sono state decine di mani femminili amorevoli che in qualche modo sono riuscite, a rischio della vita, giacché scrivere era vietato, a tramandarle tenendo fede a una promessa: come ricordo di un’amica eliminata, come restituzione a liberazione avvenuta, come affermazione di un’identità soggettiva persino nel misero nulla numerato dei campi della morte.

Se ne sono conservate circa 1200, composte da più di 140 prigioniere di oltre 15 nazionalità, cosa che ha comportato anche un importante lavoro di traduzione.

Ma furono sicuramente molte di più, perché spesso venivano distrutte dalle guardiane, oppure dalle stesse detenute per sottrarsi alle sempre tremende punizioni.

La poesia come simbolo di un eroismo silenzioso e sotto traccia, fatto di gesti e accorgimenti minimi, di piccoli segnali di solidarietà e amicizia, di un modo per continuare a sentirsi vive,  di fedeltà a una promessa mantenuta a tutti i costi. E di espedienti ingegnosi e rischiosissimi, specie nel caso dei tentativi di protezione dei bambini, la cui sorte nel lager era persino peggiore di quella degli adulti: impossibile dimenticare la festa di Natale organizzata per loro nel dicembre 1944, quando ormai era evidente la vittoria degli alleati, (arrivati comunque, in seguito, sempre troppo tardi in relazione alle aspettative): bambole e giocattoli ricavati da cocci e pezzi di metallo raccolti per terra, qualche fetta di pane e di burro in più per ogni bambino, addobbi ricavati da rami di abeti, favole ideate per l’occasione e canzoncine di Natale da ogni paese…

Anna Paola Moretti, che ha curato questa eccezionale e bellissima antologia presentata per la prima volta in Italia, ha dedicato a ciascuna autrice una scheda biografica, in relazione alle notizie che è stato possibile accertare: persino ritrovare il cognome di nascita non è stato semplice, dato che molte venivano registrate solo con il cognome da sposate.

Tutte le poesie sono presentate col testo originale a fronte, ce n’è persino una ‘tradotta’ dal friulano.

Le internate italiane a Ravensbruck sono state circa un migliaio, tante se si pensa che iniziarono a arrivare tutte dopo l’8 settembre del 1943, e vennero viste all’inizio anche con molta diffidenza, dato che si sapeva che Mussolini era complice di Hitler: ci volle un po’ a capire che una Resistenza si era sviluppata anche da noi. E’ commovente, dopo aver letto i testi, scoprire dalle schede biografiche che cosa è successo in seguito alle autrici. E anche capire l’incredibile, minuzioso e attentissimo, lavoro di raccolta di vite e di poesie fatto dalle curatrici: come un coro di sottofondo senza rottura di continuità.

Il libro non nasconde neanche le difficoltà che hanno avuto le poche sopravvissute a reintegrasi nel mondo ‘di prima’ una volta tornate a casa: non nasconde nulla, e la poesia in questo caso si mostra potente nel rimandare le esatte condizioni di vita nel campo, trasformando anche l’indicibile in qualcosa di detto. Come nel caso di una delle torture principali, gli appelli interminabili: ore ferme in piedi, sotto qualsiasi tempo, sotto pioggia e neve:

Per una piccola violazione,
Per un letto rifatto male,
Per un appello indisciplinato
per un fazzoletto mal legato,
in piedi per ore,
al vento, alla pioggia, al gelo
la sera o la mattina.

E’ quasi paradossale che queste trame  di annientamento, calcolate per di più in modo ‘scientifico’,  abbiano  dato vita a una sorta di contrario : è come se la soggettività femminile, nel tessuto sotterraneo di relazioni disperate e minimali, di morti e selezioni quotidiane, di malattie provocate, di appelli mostruosi in piedi per ore al gelo, di consunzioni da fame e da lavoro, di estremi limiti del vivere e del morire, sia stata sfidata a dare il meglio di sé nella resistenza: quasi a testimonianza, nonostante il ruolo delle kapò, di una sorta di irriducibilità femminile alle logiche concentrazionarie.

Quelle stesse logiche  che sembrano invece risultare, per gli uomini, come una soluzione scelta e praticata ( come modalità d’azione, e non solo nel caso della seconda guerra mondiale) in molte situazioni di crisi grave quando sembra sfuggire il  dominio sulla realtà.

Valeria Fieramonte


Roberta De Monticelli
Umanità violata, La Palestina e l’inferno della ragione
Laterza 2024

Il saggio di De Monticelli, è densissimo, complesso e appassionato. Intreccia  le esperienze rivelatrici  di un viaggio in Palestina alla  ricostruzione documentata storico-politica del conflitto tra Palestina e Israele, all’esegesi  di testi religiosi e di importanti opere. Esperienza, meditazione, discussione si intrecciano, dandosi reciprocamente spessore. Molti sono i possibili  temi in e di discussione del libro ma in questa recensione privilegiamo quella che De Monticelli chiama l’eclissi della ragione, considerandola causa del rovesciamento attuale  dei  paradigmi di convivenza. In questa luce quello che è accaduto e sta accadendo a  Gaza interroga l’intera umanità. Sebbene si voglia dare alla tragedia una portata temporale riduttiva, essa è in atto, sotto gli occhi ciechi del mondo, da quando si è consumata l’ingiustizia primaria che ha permesso la nascita dello stato d’Israele e la conseguente sistematica occupazione dei territori palestinesi.

Per la De Monticelli, la scomparsa della ragione porta alla deriva della funzione mediatrice del diritto nella contesa tra violenza originaria e senso di giustizia. Come già affermato da pensatori come Cassirer e Freud, un velo più esile di quanto si pensi  divide stato ”ferino” e stato di  “civiltà”, mai dato una volta per tutte e sempre squarciabile. L’oscurarsi della ragione riporta in primo piano un pensiero “mitico”, fatto proprio  dall’occidente,  che legittima l’etnonazionalismo  di Israele, ispirato a una visione religiosa violenta e primordiale.

Una dicotomia originaria infatti attraversa anche le religioni: alla religione secolarizzata e utilitaristica, si oppone la trascendenza che si rifiuta di usare il nome di Dio per traffici umani. Quello che accade in Palestina diventa dolorosa metafora del mondo dove l’ingiustizia diventa legge, l’aggressione legittima e la guerra inevitabile. La paranoia difensiva vela un neocolonialismo selvaggio e una cultura d’odio e di inferiorizzazione. Alla sofisticata tecnologia militare e civile,  si accompagna una politica e una cultura oscurantista che cancella i diritti di intere categorie di persone viste come subumane, considera l’eguaglianza un nemico, combatte ogni diversità, in nome di un dio minaccioso e discriminante che benedice un cimitero chiamato ancora terra santa.

Così postmoderno e arcaico si saldano, nella bancarotta  del pensiero occidentale. In questo processo il diritto diventa tutt’uno con i fatti compiuti perdendo quel tratto di sentire comune, di regola e verità universale, arrivando anzi al paradosso di censurare le istituzioni  che queste regole cercano ancora di far rispettare. L’identificazione tra diritto e forza è  uno scandalo che uccide pietà, anima e grazia. De Monticelli chiama violenza epistemica tutti i tentativi di riscrivere la storia dell’ oppressione palestinese e della polarizzazione senza verità.

Alla rimozione del passato e del presente si aggiunge quella del futuro, come se l’insolubilità della questione palestinese cui si è giunti, costringesse a un presentismo senza visione né sviluppo. Forte delle sue radici culturali e di una documentazione accurata, nell’ultima parte del libro De Monticelli affronta un contraddittorio serrato con le affermazioni più comuni di chi difende l’operato del governo di Israele, dialettica che va oltre il caso specifico e diventa un confrontarsi fra visioni del mondo.

L’autrice non si arrende a questa realtà che promuove il male e irride al bene. Vi è un vincolo comune  che lo spirito stringe, impegnandosi  al non dominio  degli uni sugli altri e rispettando le  identità storiche. Le tenebre, dice De Monticelli, non occorre aggredirle: basta accendere la luce. “La filosofia è congenitamente non violenza e questa comune origine i detrattori del pacifismo l’hanno sempre ignorata. Resistere al tragico, per la filosofia, è provare a sciogliere, con le sue dita delicate e pazienti, i supposti insolubili logici e etici” (pag157).

L’oscurarsi della ragione mortifica la filosofia stessa ridotta a sofistica. L’autrice fa riferimento a una serie di autori e autrici in ambito filosofico, storico e politico, ebrei e non ebrei. Il primo è ovviamente Kant, ma vi sono inclusi Husserl, Simone Weil, Martin Buber, Judah Magnes, Hans Kohn e tra i contemporanei storici israeliani come Ilan Pappé e studiosi come Slhomo Sand e Nurit Pelet-Elhanan. E se la memoria della Shoa continua a interrogarci, vanno aggiunte le  domande di che cosa può trasformare una vittima in carnefice e del perché ogni strage umana non faccia da monito per impedirne di nuove. Un libro quello della De Monticelli la cui  passione militante stimola pensieri e questioni. Tra questi mi viene anche il dubbio che la sola ragione “illuministica” non basti a diradare le tenebre, che si debba andare verso un filosofia del cuore che veda il volto dell’altro/a e la sua mortalità come orizzonte.

Marilena Salvarezza