Difficile dare anche solo un’idea dell’incontro di sabato 1 dicembre. Anzi, degli incontri. Sì, perché le socie presenti hanno potuto sentire molte voci e conoscere nove relatrici che hanno offerto le loro menti e le loro sensibilità su un argomento doloroso e delicato: la detenzione femminile.
L’evento che ha avuto luogo alla Casa si intitolava Recluse. Tutto era partito, appunto, da un libro: “Recluse – Lo sguardo della differenza femminile sul carcere”(ed.Ediesse). Nonostante il titolo evochi significati letterari e metaforici, si tratta delle interviste ad alcune detenute di tre carceri toscane. Le autrici, Grazia Zuffa e Susanna Ronconi, le hanno raccolte e riproposte in brani connettendole con le loro riflessioni, studi ed esperienze. La proposta di partire dal libro aveva interessato alcune di noi, nei gruppi Bibliomediateca e Libr@rsi, ma nonostante il libro colmasse vuoti e conoscenze imperfette, ci aveva anche aperto una voragine ancor più profonda di pensiero e di coscienza. Così, si è costruito un pomeriggio intero di riflessione e studi sulla detenzione femminile in Italia.
I loro corpi si sono fatti spazio dentro di noi
È stata una dura prova tenere le socie inchiodate alla sedia dalle 15 alle 20 ma, a detta di molte di loro, è stata un’esperienza illuminante acquisita attraverso la consapevolezza di ciò che si conosceva parzialmente o non si immaginava nemmeno. L’impatto del film documento “La casa di Borgo S. Nicola” di Caterina Gerardi, con il quale si è aperto l’incontro, è stato sicuramente forte sull’audience a giudicare dal silenzio denso con cui è stato seguito. Sono entrati di prepotenza nell’affollata sala dello Spazio da Vivere i visi e le voci delle donne della Casa Circondariale di Borgo S. Nicola in provincia di Lecce. I loro corpi e le loro storie si sono fatti spazio tra di noi aprendoci i cancelli delle loro celle e dei corridoi ma soprattutto delle loro vite, dell’interpretazione che ciascuna dava della propria esistenza e dell’esperienza di detenuta.
Il filmato, proiettato nella versione di 40 minuti rispetto all’ora dell’originale, ci ha quasi messe in contatto fisico con l’argomento, sviscerato poi in molti dei suoi aspetti da una corona di ospiti eccezionali: da quelle che hanno affrontato gli aspetti giuridici a coloro che hanno sviluppato quelli sociali ed esistenziali.
Non sono mancate le testimonianze di chi lavora giorno per giorno con le detenute e per le detenute, dentro e fuori dal carcere. Si sono delineate forme alternative alla carcerazione già esistenti e da proporre, sottolineandone positività ma anche limiti e incongruenze. Si sono denunciati i termini ristretti delle leggi vigenti, alcune recentissime; ma anche tutte le sollecitazioni – pressoché inutili – inoltrate nelle sedi istituzionali e amministrative, al fine di ottenere forme di detenzione che rispettino la persona, la sua affettività e, nel caso specifico, la differenza di genere. Forme che possano, inoltre, recuperare esistenze spezzate o sospese, valorizzando le donne per considerarle oltre l’etichetta di detenute, sostenendole nelle loro “strategie di tenuta” per giungere poi all’attivazione della soggettività e rivendicare la loro identità, sottrarle alla “mortificazione del sé” che pervade le esistenze nelle carceri.
Tra la misoginia e una nuova progettualità
Il corpo delle donne nella sua specificità ha aleggiato su tutti gli aspetti: la gravidanza, la maternità che implicano il dramma che la detenuta vive in quanto si percepisce come “madre imperfetta”, donna che ha tradito il materno sia nell’interruzione coatta della relazione con i figli che nella trasmissione del messaggio educativo. Il tempo-non tempo del carcere, gli stereotipi di genere di cui sono intrisi le relazioni con gli assistenti ma anche i programmi di recupero, di formazione e di “rieducazione”; la relazione con i figli e con le famiglie lasciate fuori.
Con assoluta onestà intellettuale nessuna delle relatrici ha sbandierato formule vincenti o ricette utopiche. Tutte hanno raccontato del loro percorso di analisi, studio ed esperienza stretto tra vincoli giuridici, logistici ed economici da un lato e l’innovazione dall’altra; tra la misoginia e una nuova progettualità. Dunque, nessuna certezza ad eccezione del fatto che la detenzione, e quella femminile in particolare, così com’è può soddisfare e rassicurare un sistema che per le donne è doppiamente afflittivo e difficilmente riformabile. Così facendo, la società rinuncia ad una parte di se stessa. Il più delle volte definitivamente.
Nicoletta Gandus e Angela Giannitrapani
A questo link uno stralcio dell’intervento di Tamar Pitch