Molti sono i modi per avvicinarsi al drammatico conflitto israelo-palestinese che ci interpella tutte. Uno di questi è attraverso la letteratura contemporanea, in particolare femminile, che conosce una grande fioritura. Nelle opere delle israeliane Sarah Shilo, La pazienza della pietra (Giuntina, 2008) e Dorit Rabinyan, Borderlife (Longanesi, 2016) e della palestinese Susan Abulhawa, Ogni mattina a Jenin, (Feltrinelli, 2013) la guerra infinita, vista dall’una e dall’altra parte, è il tema centrale o il tormentoso sfondo di vita.
I libri proposti riescono a restituirci come la storia, quasi sempre subita, agisca nel quotidiano, stravolgendo le esistenze, cambiando i destini e i contesti di appartenenza. Attraverso le vicende dei singoli, le opere di queste scrittrici offrono un’immagine della condizione umana là dove la storia entra con violenza inaudita nella vita. La loro scrittura ha la capacità di dare voce al dolore individuale, uguale e opposto, di cogliere quanto il conflitto entri anche nei corpi, nei cuori e nelle menti, in un processo disumanizzante che riguarda vincitori e vinti. Attraverso il processo di immedesimazione e con l’uso dell’empatia fanno conoscere diversi punti di vista, a volte contrapposti, senza demonizzare “l’altro”.

Da questi libri emergono gli inestricabili intrecci fra arabi e israeliani – nelle radici, nella lingua e nell’aspetto – che nessuna cancellazione può rimuovere, il rispecchiamento inevitabile che sono gli uni per gli altri. Diverse come vedremo le posizioni politiche e la lettura della situazione, come inevitabile, ma in tutte queste autrici c’è un impegno civile e la volontà di arrivare a una pace duratura. In questi libri infine estetica, letteratura, storia e politica si intrecciano in modo unico e affascinante, ribadendo l’interdisciplinarietà originaria della narrativa.
Proporremo altre scrittrici palestinesi nelle prossime puntate della rubrica. Potete contattarci all’indirizzo librarsi@casadonnemilano.it


Sara Shilo
La pazienza della pietra
La Giuntina, 2008
Copertina di Sara Shilo "La pazienza della pietra", Giuntina 2008
La scrittrice israeliana Sara Shilo, nata nel 1958 a Gerusalemme ma di madre siriana e padre iracheno, nella Pazienza della pietra (La Giuntina, 2008) affida a cinque voci narranti, un espediente narrativo già usato da Avram Yehoshua, il racconto delle vicende della sfortunata famiglia Dadun. Il romanzo è ambientato in un luogo indefinito che potrebbe essere un territorio di occupazione israeliana. Le voci sono quelle della madre vedova e di quattro dei suoi figli. La morte del padre, il “re” dei falafel, le cui cause restano volutamente vaghe, è stata deflagrante per il nucleo familiare, frantumatosi in tanti atomi ciascuno chiuso nel proprio dolore e nella propria visione delle cose. Il “padre” sembra metafora anche dell’assenza di uno stato unificatore, che lascia i propri cittadini ciascuno in preda al dolore alla paura.

Ognuno col suo dolore
Le voci narranti esprimono le diversità che attraversano lo stesso Israele, troppo spesso rappresentato come un monolite. La famiglia Dadun è a sua volta immigrata dal Marocco, ha vissuto fianco a fianco con gli arabi di cui conosce la lingua. Nella gerarchia di Israele occupa un posto basso e certo non avverte protezione e cura da parte dello Stato. I membri svolgono attività faticose e poco retribuite con un costante senso di precarietà e paura.

La madre lavora in un nido e si prende cura di sei figli (gli ultimi due, gemelli, nati dopo che il padre era morto). La sua prostrazione è tale che spera di essere uccisa da un missile katiuscia sparato da Gaza.

I razzi lanciati dalla parte araba sono una costante nella vita della popolazione di confine insieme alla paura di incursioni terroristiche. Spesso la notte gli abitanti debbono scendere nei rifugi, dove va in scena il meglio e il peggio degli esseri umani costretti a una coabitazione forzata e angosciosa: ad atti di solidarietà si alternano liti per ragioni meschine.

Comune a tutte e a tutti, anche se affrontato in forme e in comportamenti diversi, è però il senso di fatica del vivere che attraversa i personaggi. Kobi il figlio maggiore appena adolescente ha dovuto sostituire il genitore e fare da padre ai due gemellini. Tutto il denaro che guadagna è destinato a un nuovo appartamento e con questo obiettivo fa vivere in ristrettezza la famiglia. Itzik, che ha mani e piedi deformi, ha sviluppato un feroce senso di rivalsa e vive in simbiosi con un rapace chiamato Dalila.

Il fratello, Dudi, è quasi sempre suo succube perché Itzik lo considera il suo prolungamento. La figura più positiva è quella della giovane Etti che si prende cura dei fratellini, riflette sulle storture della famiglia (ai piccoli è fatto credere che la mamma e Kobi sono marito e moglie) e vuole portare alla luce la verità che pensa sia salvifica, convinzione che condivide con l’autrice che vede nella descrizione fedele della realtà e nella sua rielaborazione simbolica il senso della scrittura. Nel libro sono i due gemellini a rappresentare la speranza di futuro.

Simili e nemici
Paura e odio sono compagni costanti, eppure tra i due popoli c’è un forte legame sotterraneo, dovuto anche alla comune radice linguistica ed è proprio la letteratura, secondo Sara Shilo, che deve portarli alla luce e smascherare contrapposizione precostruite. Per Sara Shilo la lingua è un fattore di sicurezza e insieme di confronto. Anche per lei la letteratura è scuola di tolleranza “[…] in quanto per me è molto importante rispettare la libertà dell’altro. Devi essere in un determinato posto anche dal punto di vista emotivo per poterti aprire all’altro. Scrivendo mi avvicino agli altri, posso pensare a queste persone senza giudicarle, vale a dire vivere in empatia con il loro modo di vivere e pensare” (Informazione corretta, 13 maggio 2008; https://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=24569). Ribadisce, però come altre scrittrici israeliane che solo avendo una forte appartenenza identitaria che passa attraverso la lingua, le culture familiari e uno stato con confini ben definiti è possibile aprire un confronto con l’altro. La diversità identitaria, quindi, sebbene non impedisca una soluzione pacifica, va mantenuta e anzi è la condizione da cui il confronto può iniziare.


Dorit Rabinyan
Borderlife
Longanesi, 2016
Dorit Rabinyan, Borderlife, Longanesi 2016Amore impossibile
Analoga posizione politica esprime la scrittrice israeliana Dorit Rabinyan, nata in Israele da genitori ebrei di origine iraniana, autrice di Borderlife (Longanesi, 2016), la storia d’amore di una israeliana e di un arabo. Il libro è stato bandito dal ministero dell’istruzione israeliano in quanto minaccia “all’identità ebraica”. Il ministro Naftah Bennet ha affermato: “Le scene di intimità tra la coppia [composta] da due parti opposte del conflitto minacciano di indebolire il fulcro dell’idea nazionale: Israele è uno stato ebraico e può rimanere così solo se gli ebrei stanno alla larga da relazioni amoroso con non-ebrei”. L’affermazione ricorda sinistramente l’ideologia nazista contro gli ebrei: sottinteso è il concetto di razza, che trasforma il dato culturale, sociale e politico in biologico e pone un tabù addirittura religioso alla contaminazione e aprendo la strada alla disumanizzazione dell’altro, ne fa una facile preda.

Nostalgia e paura: diversi e uguali
In Borderlife la storia d’amore fra la israeliana Liat e il palestinese Heilmi ha al suo cuore proprio il conflitto identitario. I due amanti si incontrano a New York, due anni dopo la distruzione delle Torri Gemelle. (la stessa Liat viene scambiata per una terrorista araba dalla polizia). La loro storia diventa anche un’allegoria del confronto fra i due popoli.

La scrittrice racconta di aver cominciato a riflettere sul tema a partire dalla propria condizione di donna medio-orientale domandandosi se fosse davvero libera o inconsapevolmente prigioniera di una cultura. Tuttavia nella diaspora da Israele l’identità assume un valore comunitario, è una condizione che aiuta anche se limita.

È questa complessità che l’autrice mette in scena nel suo libro, le cui sfaccettature sono incarnate dai protagonisti. Liat è israeliana, con genitori che hanno vissuto in Iran, è di famiglia agiata, ha potuto godere di libertà e di opportunità. Hilmi è vissuto nell’oppressione e nella povertà, è stato quattro mesi in prigione per aver dipinto un murale con la bandiera palestinese, non ha mai visto il mare nonostante la vicinanza di Gaza.

Il luogo dove si nasce per i palestinesi diventa una condanna a vita. Da bambini avevano paura: lei dei coetanei arabi e lui di quelli israeliani. Però condividono la stessa nostalgia dei luoghi natali, delle distese di olivi, delle colline di calcare. Il loro amore si muove in un orizzonte impossibile; con consapevolezza inesorabile da parte di Liat, con ostinata speranza da parte di Hilmi. New York è una zona franca, che libera dalle catene dell’appartenenza, ma il ritorno in patria di entrambi segna un duro risveglio.

Nel tragico finale Hilmi morirà proprio nelle acque che non aveva mai conosciuto, per salvare altri. Ancora un’amara metafora di una condizione da cui non è dato uscire. Eppure è evidente che solo l’amore e non l’odio ha una chance di operare il cambiamento.

Dorit Rabinyan ha espresso in varie interviste la sua posizione che riconosce la costitutiva ambivalenza dei confini come protezione ma anche come limitazione:

La diversità è un valore ma una parte della nostra natura umana è storicamente restia ai cambiamenti. I confini non solo limiti ma anche forme di protezione dall’esterno. In Israele abbiamo bisogno di confini e muri ma ciò che dovremmo capire è che i muri esprimono paura e con la paura non potremo mai essere liberi” (intervista di Francesco Musolino, “Gazzetta del Sud”, 13 settembre 2016; https://francescomusolino.com/2016/09/14/rabinyan-taobuk-borderlife/).

Un tema analogo, ma all’interno di un diverso filone di narrativa viene trattato da Iris Eliya-Cohen, originaria dell’India, in Maktub, non tradotto in italiano. Maktub che significa “destino ineluttabile,” racconta l’amore extraconiugale di Irit, israeliana e Ahsan, arabo giardiniere-paesaggista negli anni Settanta del ventesimo secolo a Haifa. L’autrice appartiene alle scrittrici e agli scrittori della seconda generazione di immigrati, detti mizrahim.

È una narrativa spesso autobiografica, che ha attinto dalle storie e dalle tradizioni di padri e madri, che non censura le contaminazioni tra israeliani dell’emigrazione e cultura arabo-musulmana ma si ritrova negli scrittori figli di emigrati tornati in patria che hanno la pelle scura, capiscono l’arabo e talvolta lo parlano e sono la contraddizione vivente di una unicità etnica e culturale che non si vuole mettere in discussione. In Maktub l’arabo protagonista, Hashan, che morirà nella seconda Intifada, non è rappresentato in modo stereotipato ma ha una storia, una cultura, desideri e posizioni politiche, è capace di mediazioni anche non rinnega le sue origini.


Susan Abulawa
Ogni mattina a Jenin
Feltrinelli, 2013
opertina di Susan Abulawa, "Ogni mattina a Jenin", Feltrinelli 2013
Anche per le scrittrici palestinesi il tema dell’identità (intesa come luogo originario, come radice, infanzia, come espropriazione) è centrale, ma a partire da un senso profondo di perdita, di nostalgia e di oppressione. Un’identità che rischia di essere cancellata insieme al popolo che la esprime.

Susan Abulahawa è nata in una famiglia esule dopo la guerra dei sei giorni e ha vissuto da bambina in un orfanotrofio/collegio di Gerusalemme. Si è poi trasferita negli Stati Uniti e laureata in scienze biometriche. In Ogni mattina a Jenin (Feltrinelli, 2013), che in parte ricalca vicende autobiografiche, racconta l’epica dolorosa della famiglia Abulheja che deve abbandonare la propria storica abitazione di Ain Hod nel 1948 e rifugiarsi nel campo profughi di Jenin.

La narratrice è Amal, la nipote del patriarca: attraverso le sue parole sfilano quattro generazioni. Il libro si apre nel 1941 sulla vita serena della famiglia, in un ambiente quasi idilliaco dominato dalla cultura dell’ulivo, caratterizzato da un forte legame con la terra, caratteristico del mondo palestinese. Inglesi e ebrei sionisti restano sullo sfondo finché i primi se ne vanno e i secondi accolti con gentilezza, seminano distruzione e morte.

Non passò nemmeno un giorno, e i soldati israeliani tornarono al villaggio. Gli stessi uomini a cui era stato offerto del cibo adesso marciavano e puntavano i fucili contro chi aveva dato loro da mangiare.

Le vicende degli Abulheja sono quelle vissute dal popolo palestinese in un arco di sessanta anni.

Una Nakba che non finisce mai
Le parti del libro ricalcano le vicende più tragiche della storia di un popolo senza patria. L’esilio palestinese del 1948 dopo la catastrofe (Nakba), la guerra dei sei giorni (1967, la sconfitta araba, Naksa) e l’eccidio dei campi profughi di Sabra e Shatila da parte dei falangisti libanesi con l’assenso di Israele e del suo esercito, che si ripercuote anche nella devastazione del campo di Jenin e l’espulsione di tutti i militanti palestinesi.

La storia ufficiale entra tragicamente nella storia familiare, provocando drammatici lutti come la sparizione del padre, l’uccisione della cognata e della nipote di Amal che spingono il fratello verso una militanza estrema: Yussef viene individuato come uno dei responsabili dell’attentato terroristico contro l’ambasciata americana in Libano nel 1983.

Nel 2002, sempre a Jenin dove la protagonista Amal con la figlia Sara ha sentito il bisogno di tornare dopo molti anni vissuti negli Stati Uniti, infuria la ribellione della seconda Intifada. Pietre contro bombe, come dice l’autrice. La risposta feroce dell’esercito israeliano al lancio di pietre, con il massacro di ragazzini, sarà stigmatizzata anche dagli israeliani che hanno a cuore i diritti civili.

Jenin: luogo di esilio e oppressione, dove non si dorme mai, dove i bambini nascono già grandi o non diventano grandi e scansano le mine su un piede solo, ma che era stato per Amal il magico luogo identitario delle origini. E proprio a Jenin trova la morte per salvare la figlia Sara, nell’ennesima feroce vendetta degli israeliani. Resteranno per giorni chiuse in una buca insieme all’amica fraterna Huda e suo figlio, ricreando l’analoga vicenda drammatica della loro infanzia.

Quando si crederanno in salvo, un cecchino israeliano prende di mira Sara e Amal morirà per salvarla. Prima di morire però ha potuto ricongiungersi con il luogo che è stato la sua anima. Nonostante l’amore del padre, genitore affettuoso e mentore culturale, e l’amica fraterna Huda abbiano dato istanti di dolcezza ad Amal, gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza – in cui il più grande piacere era respirare per un attimo un senso di normalità, nel fare cose quotidiane o nel poter sognare – sono stati duri. Le situazioni estreme, come dice Susan Abulhawa rendono estremi i sentimenti, legano gli affetti a un patto di sopravvivenza.

Una tristezza che fa piangere le pietre
La nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono comprendere, la nostra tristezza fa piangere le pietre.

Per questo Amal si è sempre sentita estranea agli Stati Uniti, un paese che pure l’ha accolta, perché il benessere attutisce la possibilità di provare sentimenti profondi e in cui la narrazione delle vicende è completamente distorta. Il libro è nato da questa ricerca di radici, dal bisogno di dar voce a un’ingiustizia originaria e di far capire, non giustificandolo, le cause del terrorismo.

La scrittrice parla della propria necessità morale e esistenziale di proporre una narrazione diversa rispetto a quella offerta dall’oppressore e fatta propria dall’Occidente. Occorre riaffermare l’esistenza di un popolo disumanizzato, ultimo fra gli ultimi. Le forme di memoria ma anche di resistenza sono la nuova patria di questi figli dispersi.

Tuttavia il libro non vuole essere un messaggio di odio verso gli oppressori. La vicenda dei due fratelli di Amal – Yussef e David, un tempo Isma’il – è emblematica. Il secondo è stato rapito dalle braccia della madre neonato da un soldato israeliano e allevato da sua moglie Yolanta, sopravvissuta ai campi di sterminio, dove era diventata sterile, mentre il primo è diventato militante della causa palestinese. Tuttavia una specie di affinità più profonda della feroce divisione di campo emergerà e sarà alla base della presa di coscienza di David, il bimbo rapito ormai uomo.

Il dolore senza pace di Yussef per la morte di moglie e figlia nel campo profughi lo porta ad un passo dal compiere il sanguinoso attentato all’ambasciata americana, ma lui si ferma in tempo, anche se ormai l’unica alternativa è il suicidio. Il più caro amico di Yussef, fin dai tempi della prima adolescenza, è un israeliano, Ari Perlstein, i cui genitori erano venuti precocemente a Gerusalemme per non soccombere alla Shoa, in tempi in cui ci si poteva ancora riconoscere fratelli.

Amore versus odio
L’ultimo messaggio di Yussef alla sorella è un messaggio d’amore:
Carissima Amal con la vocale lunga di speranza,
a volte l’aria mi riporta il sospiro dei ricordi. L’aroma degli ulivi e del gelsomino fra i capelli del mio Amore. A volte porta il silenzio dei sogni infranti. A volte il tempo è immobile come un cadavere, e con lui giaccio nel mio letto.
E così dormo, aspettando di rendermi onore quando sarà il momento.
Perché non avrò tenuto fede alle mie promesse, ma terrò fede alla mia umanità.
… E l’Amore non mi sarà mai strappato dalle vene.

 L’obiettivo è dar voce a chi è vittima non solo della storia e di altri esseri umani ma anche di una narrazione distorta. Il respiro ampio e la dolcezza del racconto vanno in questa direzione. Le posizioni politiche di Susan Abulhawa sono nette e radicali. Intervistata dice:
[…] Fin dalla sua nascita, Israele è stato un’iniziativa coloniale genocida nata in Europa tra le élite di ebrei europei che volevano accaparrarsi una fetta della torta coloniale. Indipendentemente dalle loro ragioni, che si tratti di una risposta all’antisemitismo o di semplice avidità, resta il fatto che sono degli stranieri venuti in Palestina con l’intento di allontanare gli indigeni dalla terra e rubare loro tutto quello che avevano. Questi sono i fatti. La narrazione biblica romanticizzata è pura fantasia che non ha alcuna rilevanza nella realtà o nella testimonianza storica e forense. Siamo un popolo indigeno che lotta per liberarsi da questo stato di apartheid basato sulla supremazia ebraica fascista e la storia ci darà ragione.
(Fonte: Maria Tavernini e Alessandro Di Rienzo. in “Altreconomia”, 16 febbraio 2024; https://altreconomia.it/a-gaza-limperatore-e-nudo-la-sua-malevolenza-e-chiara-chi-tace-e-complice/)

Marilena Salvarezza