I dati dell’Istat sulla perdita di posti di lavoro nello scorso dicembre hanno fatto scalpore, ma non abbastanza. Ricordiamoli: nel dicembre 2020, su 101 mila nuovi disoccupati 99 mila, cioè il 98,1% sono donne. E se si prende in considerazione l’intero anno, dei 444 mila posti di lavoro perduti, tre su quattro, 312 mila, sono posti di donne. Sia in dicembre sia nell’anno 2020, aumentano anche le “inattive” cioè le donne dai 15 ai 64 anni che il lavoro nemmeno lo cercano.
Mai come questa volta appare chiaro quello che le donne da quasi un anno denunciano: sono loro a pagare il prezzo maggiore della pandemia.
Sul lavoro i motivi sono chiari. Quasi 80 mila posti perduti in dicembre sono di lavoratrici “autonome”, cioè vere o finte partite Iva, precarie, part time, attive nei settori più in crisi, come il turismo, la ristorazione, il piccolo commercio, la cultura. Molte di loro impegnate in attività poco stabili e poco continuative, nelle quali cercavano di conciliare vita e lavoro. Una “conciliazione” resa ancora più difficile, in molti casi drammatica, dal fatto che nella pandemia tutto si svolge in casa, e grava prevalentemente sulle spalle delle donne: dal lavoro da remoto (quello delle donne ma anche quello di mariti e figli) alla didattica a distanza, che ha coinvolto in dicembre tutti i ragazzi con più di 12 anni.
Anche le piccole “riprese” non hanno riguardato le donne. Per esempio nel novembre 2020 si è verificato un leggero aumento di occupazione rispetto a ottobre. Ma anche in questo caso, i maschi occupati in più sono stati il doppio delle donne: più 42 mila contro più 21 mila.
Questi recenti dati dell’Istat sono solo un tassello del puzzle di una realtà di sofferenza e di diseguaglianza che il Covid ha messo sotto gli occhi di tutti. Cura del lavoro e del pianeta, diritti, servizi, occupazione, futuro. Che posto hanno nella discussione sul nuovo governo e in quella sul piano Next Generation Ue?